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Un week end straussiano a Lipsia

Richard Strauss (1864-1949) è un compositore per molti aspetti  nostro contemporaneo. Circa cento anni fa, dopo l’avvento della psicoanalisi e l’inizio del movimento d’emancipazione delle donne in Germania, Strauss ed il suo principale librettista Hugo von Hofmannsthal posero interrogativi ancora oggi di grande attualità; erano temi chiave all’inizio del modernismo e lo sono ancora oggi mentre sta tramontando il post-modernismo. Come si costruisce una relazione in cui ambedue i due partner sono su un piede di totale parità? Quale è un modello di una relazione di successo? Quale è un modello di famiglia di successo? Come possibile conciliare gli opposti impulsi di eros ed etica nel mondo moderno.

Ogni anno l’Opera di Lipsia (che segue il modello austro-tedesco del “repertorio”, ossia una produzione di successo viene messa in scena per differenti anni prima di essere sostituita da un nuovo allestimento) ha un programma di diverse opere di Richard Strauss. Al pari di altri teatri tedeschi, la stagione termina con un breve festival in cui si ripropongono le produzione di maggior successo. Questa stagione chiude con un fine settimana (16-18 giugno) in cui il sovrintendente e direttore Musicale Ulf Schirmer (egli stesso un noto interprete straussiano) propongono tre capolavori strussi ani): Arabella , Salome La Donna Senz’Ombra. La seconda è una première, ossia un nuovo allestimento. Le altre due sono tra i successi maggiori del teatro di Lipsia degli ultimi anni. In buca, per l’occasione, ci sarà la  Gewandhaus Orchestra, una delle formazioni più note delle Germania e degnamente specializzate nel repertorio romantico e post-romantico.

A Strauss e al declino della vecchia Europa visto attraverso il Der Rosenkavalier, ormai frequentemente rappresentata anche in Italia, sono stati dedicati numerosi saggi. Vediamo come viene declinato in Arabella , un gioiello che manca in Italia da circa un quarto di secolo. È una commedia lirica con “il bazar sublime d’ogni possibile ed impossibile impegno vocale” (lo scrisse Fedele D’Amico) di uno Strauss quasi settantenne. Una famiglia sull’orlo della bancarotta che, nella Vienna sconfitta degli anni immediatamente successivi alla guerra austro-prussiana, gioca le ultime carte puntando su di un buon matrimonio della figlia Arabella. Per questa ragione la sorella piu’ giovane, in attesa che  un ricco cavaliere si presenti, e’ costretta a vivere travestita da ragazzo. Nasce in questo modo un equivoco sul quale si fonda l’intreccio che si conclude  con un lieto fine e con una musica del tutto innovativa: un organico ristretto, addio per sempre ai wagnerismi , nessuna concessione alla dodecafonia, una scrittura (scrive Mario Bortolotto) fatta di “schegge e tessere sonore” che “scorrono , riapparendo in momenti del tutto imprevedibili” in cui anche i ritmi di danza hanno una funzione importante.

La vidi anni orsono a Francoforte (in un allestimento coprodotto con il Teatro Reale di Göteborg in Svezia) in cui la vicenda viene trasferita ai giorni d’oggi come ha fatto il regista Jan Schmidt-Garre nella produzione che vedremo a Lipsia: la crisi è quella finanziaria, il mondo che sta sparendo è quello della finanza à go-go. Una scena unica con pareti mobili. Il bianco e nero è di rigore; si staglia sul resto il magnifico abito da sera azzurro della protagonista.

Die Frau ohne Schatten“è una delle opere più importanti del Novecento ed il lavoro più amato dallo stesso Richard Strauss che avrebbe voluta dirigerla in tarda età quando si scherniva alle frequenti offerte di dirigere Der Rosenkavalie” (“Il Cavaliere della Rosa”) dicendo che 78 anni era troppo lunga e faticosa, ma suggerendo che avrebbe ben preso la bacchetta per Die Frau (che dura venti minuti di più di Rosen).

Il libretto è una favola che può sembrare molto complicata. Per comprenderla non è necessario addentrarsi nelle molteplici fonti e nei simboli dei numerosi personaggi, di cui uno solo ha un nome (Barak, il tintore) mentre gli altri sono indicati per la loro funzione o per una loro caratteristica (L’Imperatore, l’Imperatrice, la Donna, la Nutrice, Il Messaggero degli Spiriti, il Guardiano del Tempio, lo Storpio, il Cieco, il Monco e così via). L’apologo è, però,  lineare: un uomo e una donna non sono tali se non hanno figli – i quali, a loro volta, sono il nesso tra passato e futuro. Senza figli, l’amore è unicamente sesso e la coppia resta un eterno presente senza significato (e senza storia). La vera gioia si ha, però, unicamente al termine di uno percorso iniziatico pieno di dolori. Paternità e maternità, da un canto, e gioia grazie alla sofferenza, dall’altro, colpiscono tutti.

Le due coppie al centro della vicenda sono, da un lato, il giovane e bell’Imperatore e la giovane e bella Imperatrice, e, dall’altro, un povero tintore con tre fratelli disabili e la di lui donna. La prima coppia non può generare perché l’Imperatrice non ha un’ombra (quindi non è una donna completa). L’altra perché troppo stanca e stressata  dalle fatiche quotidiane. L’Imperatrice riesce, con un sotterfugio suggeritole dalla sua mefistofelica nutrice, a carpire l’ombra dalla donna, creando, però, a quest’ultima ed al suo Barak sofferenze ancora più gravi di quelle che avevano nella loro condizione precedente. La truffa – dell’ombra – non salva neanche la coppia imperiale, perché avviene troppo tardi. La salvezza viene dalla comprensione del dolore che Imperatore e Imperatrice hanno causato alla donna senz’ombra e dal tentativo di aiutare Barak e sua moglie. La compassione dei cieli a questo punto non può non intervenire: risolvere i problemi di ambedue le coppie e trasformare il coro dei bambini non nati con cui termina il primo atto in un coro di bambini che stanno nascendo nel grandioso finale. Tutto avviene in un mondo mitico che richiede nel primo e nel terzo frequenti cambiamenti di scena a sipario aperto o solo leggermente abbassato mentre in orchestra si avvicendando (tra un quadro e l’altro) sette interludi, tutti differenti pur se tutti sullo stessa cellula musicale. Non solo, è necessario un palcoscenico a due livelli e nel terzo atto nei rapidi avvicendamenti ci vorrebbe anche una cascata, un bosco e via discorrendo. A supporto del disegno generale di Guth, ci sono le scene ed i costumi di Christian Schmidt, le luci di Olaf Winter ed i video di Andi Müller.

Anche un melomane girovago come me ha visto dal vivo poche volte Die Frau ohne Schatten. La prima volte fu nel 1967 (ero studente; ero “studente e povero” per usare un noto verso di un’aria verdiana ma riuscivo sempre ad andare al loggione) in quello che allora il “nuovo” Teatro dell’Opera di Francoforte, struttura modernissima. Non conoscevo l’opera che per averne sentito qualche sezione in disco. La messa in scena era tradizionale: palcoscenico a due livelli e scene dipinte. Oggi sembrerebbe semplice ma trasmise il grande fascino del lavoro. Negli anni Settanta, il Metropolitan Opera di York sfoggiava un allestimento grandioso con cui metteva in mostra tutta la tecnologia allora disponibile.

Veniamo ora a Salome, nella foto Elisabet Strid la protagonista, (senza l’accento sull’ultima lettera, dato che di librettista Hedwig Lachmnn ha lavorato su un testo di Oscar Wilde ed il compositore è Richard Strauss). Negli allestimenti più frequenti si usa fare ricorso al decadentismo visionario fin de siècle Strauss, scettico sulla possibilità di mettere in musica il testo di Wilde, venne convinto guardando un quadro di Gustave Moreau – o ai film storici anni Cinquanta – celebre quello di William Dieterle del 1953 che termina con il pentimento e la conversione della protagonista. Nell’ultima produzione da me vista, al San Carlo, Manfred Schweigkofler, al suo secondo allestimento dell’opera, poneva l’azione in tempi moderni. Nella versione del 2012 la figura centrale diventava Erode in una lussuosa villa piena di “ninfette”; le allusioni erano abbastanza evidenti. La vicenda si dipana nel grandioso palazzo mediterraneo, piuttosto cupo e volgare nonostante affreschi ispirati a Chagall, di un signorotto potente, ricco, isterico e lussurioso. L’aspetto più interessante è la figura della protagonista. In linea con i Vangeli di Marco e soprattutto di Matteo , nonché con il documento apocrifo, la Lettera di Erode a Pilato, nella Leggenda Aurea, Salomè è poco più di una bambina condotta dalla madre Erodiade sulla strada della perversione. Scansa il siriano Naraboth di lei sinceramente innamorato (e pronto a sposarla) perché morbosamente attratta dalla castità di Giovanni Battista (che la respinge). Spinta dalla madre, ne chiede la testa a Erode in cambio per una danza per lui. Sino alla tragedia finale e alla condanna a morte di quella che resta una bambina capricciosa. È una lettura distante da Wilde e dal decadentismo ma essenzialmente in linea con Strauss, bavarese e cattolico.

Guarda le foto dell’Opera di Lipsia

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