Sintesi di un articolo tratto dal numero di gennaio 2013 di Aspenia
Un fatto che mi ha particolarmente colpito è che in campagna elettorale nessun candidato – e nessun partito – è sembrato avere le idee chiare su come costruire un nuovo modello sociale per la new economy, proprio oggi che invece la maggiore urgenza del paese sarebbe quella di elaborare una nuova visione sociale e sviluppare politiche e istituzioni capaci di realizzarla.
Nel vecchio sistema, spesso definito fordismo in Europa e negli Stati Uniti, sia gli operai che gli impiegati potevano contare sulla stabilità del posto di lavoro; un corpo di pubblici dipendenti di buon livello professionale amministrava uno Stato dalle funzioni sempre più ampie; tutte le classi sociali vedevano migliorare costantemente il proprio livello di vita e il divario tra le classi restava sostanzialmente stabile. Il “dividendo sociale” in continuo aumento veniva ridistribuito in varie forme: più ferie, più istruzione e a minori costi grazie ai finanziamenti statali, riduzione dell’età pensionabile, settimana corta e così via. Il diploma di scuola secondaria garantiva un lavoro fisso e uno stile di vita decoroso da classe medio-bassa; la laurea procurava stipendi più alti a pari sicurezza del posto di lavoro.
Questo sistema comportava un miglioramento graduale delle condizioni di vita, lasciando intatte le caratteristiche generali della società. Le democrazie industriali avanzate di allora erano effettivamente arrivate alla “fine della storia”: sembrava che la società umana “sviluppata” non sarebbe più andata incontro a cambiamenti radicali, perché il quadro era ormai compiuto.
È quello che chiamo il “modello blu”. In America, oggi, lo spartiacque politico è tra chi vede in esso la migliore organizzazione possibile di una società moderna e intende sostenerlo e difenderlo, e coloro invece che – a prescindere dai vantaggi che può aver portato in passato – non reputano più sostenibile quel modello.
In Europa, capita spesso che si eleggano politici che promettono di difendere il vecchio sistema mentre in realtà iniziano a smantellarlo una volta in carica. È probabile che gli americani – a fronte del deficit federale, dei deficit di bilancio a livello locale, dei passivi dei fondi pensione in tutto il paese – scopriranno presto a loro volta che la
matematica batte l’ideologia: se non ci sono soldi i politici devono procedere ai tagli, a prescindere dalle loro inclinazioni personali.
Sotto l’impatto della globalizzazione, dell’automazione e dell’accelerazione del cambiamento tecnologico, il fordismo americano sta andando in pezzi così rapidamente e radicalmente che neppure i suoi sostenitori possono ignorare la disintegrazione del vecchio sistema. Rahm Emmanuel, che prima di diventare sindaco di Chicago è stato capo di gabinetto del presidente Obama alla Casa Bianca, si è scontrato ripetutamente con i potentissimi sindacati del settore pubblico della sua città. Neppure un fedelissimo del presidente, a capo di un distretto metropolitano tradizionalmente tra le più salde roccaforti del centrosinistra, può permettersi di ignorare le realtà finanziarie che impongono di cambiare le retribuzioni dei lavoratori del settore pubblico e le loro modalità di pensionamento.
Il problema, oggi, è che l’America si trova sulla soglia di un nuovo tipo di società e di un nuovo tipo di politica. Hanno ra¬gione i repubblicani quando dicono che i modelli e i metodi di un tempo non funzio¬nano più e che ripercorrere il pur glorioso cammino di Roosevelt e di Johnson signifi¬ca puntare a rendimenti in ribasso con denaro preso in prestito. Ma i democratici hanno a loro volta ragione quando accusano i repubblicani di non saper proporre una chiara alternativa e sostengono che il sistema attuale, per quanto imperfetto, è vitale per la sicurezza economica e il benessere di milioni di americani che non si fidano del partito repubblicano e delle sue idee talvolta vaghe di cambiamento.
La situazione si complica quando si viene alle problematiche culturali e sessuali. Qui sono i repubblicani che sembrano spesso vagheggiare un ritorno a un passato insoste¬nibile, mentre i democratici sembrano inclini a buttare dalla finestra tutto ciò che è “vecchio” e familiare, nella speranza che ciò che verrà dopo sia comunque migliore.
In verità, però, non siamo rimasti fermi al 2000. Che Paul Ryan (il candidato vicepresidente con Romney) piaccia o meno, le sue soluzioni riguardo a Medicare e Medicaid sono migliori delle proposte repubblicane di riforma del settore previdenziale e sanitario avanzate negli anni scorsi. E che il principio della libertà di scelta della scuola sia ormai universalmente accettato – al punto che molti democratici, al pari dei repubblicani, accettano ormai il sistema delle charter school e dei buoni scolastici – rappresenta un importante passo avanti. Ma serve altro: idee non convenzionali ma pratiche, idee migliori per riorganizzare l’America per il XXI secolo.
Alcune idee per il futuro verranno dai democratici, altre dai repubblicani. I democratici, che devono affrontare i problemi della governance urbana sotto il peso di rigidi vincoli finanziari, saranno una fonte importante di idee innovative su come governare meglio a minori costi. I repubblicani, furiosi contro il connubio tra Wall Street e il governo che ha favorito la vittoria democratica, ci aiuteranno a ripensare il significato della libera concorrenza nel xxi secolo.
Walter Russell Mead è editor-at-large di “The American Interest”, e professore di politica estera al Bard College.