Nella confusione che ancora circonda gli attentati in Spagna, un elemento sembra chiaro: il bilancio delle vittime sarebbe potuto essere più pesante. Mercoledì infatti, nella cittadina di Alcanar a duecento chilometri da Barcellona, un’esplosione si è verificata in un’abitazione privata: secondo fonti di polizia, che collegano l’episodio ai fatti di due giorni fa, chi vi abitava stava preparando degli esplosivi, da usare probabilmente nel micidiale attacco delle Ramblas. Inoltre, stanotte intorno all’una, nella località balneare di Canbril, un centinaio di chilometri a sudovest di Barcellona, un’auto con cinque terroristi a bordo muniti di cintura esplosiva si è scagliata contro un’auto della polizia, che ha reagito sparando e uccidendo gli assalitori.
Due attacchi in Spagna, dunque, separati nello spazio e nel tempo, ma collegati dalla comune matrice jihadista. Il marchio di fabbrica, l’uso di un veicolo ariete contro la folla inerme, è quello dello Stato islamico, sebbene ormai fatto proprio da individui e gruppi di altra estrazione, come dimostrano l’incidente nei dintorni di Parigi una settimana fa, con un uomo, probabilmente squilibrato, che ha diretto la sua automobile contro un ristorante, e l’odioso attacco a Charlottesville di pochi giorni fa, costato la vita a una giovane manifestante antifascista, perita sotto le ruote di un’auto guidata da un neonazista.
Le tecniche del terrore si diffondono, come un contagio virale, facendo di un mezzo della vita quotidiana come le autovetture uno strumento di morte. È terrorismo allo stato puro, studiato per disseminare la paura in una società che ha nella libertà di movimento negli spazi urbani uno dei suoi elementi costitutivi. Il brevetto di questa modalità stragista è senza dubbio dello Stato islamico: a poche settimane dalla costituzione della coalizione internazionale contro il califfato, i propagandisti del jihad già incitavano affiliati e simpatizzanti a seminare la morte con questa tecnica semplice quanto efficace. Nel giro di tre anni, i seguaci del culto jihadista hanno messo a segno almeno sei attacchi condotti in questo modo, infierendo su città come Nizza, Berlino, Londra, Stoccolma. A questa lista si aggiunge ora Barcellona, capitale del turismo globale colpita ieri proprio in quanto tale: perché sede di vacanza e spasso, segni di condotta “immorale” secondo i canoni deviati dell’islamismo.
L’individuo che ha falciato oltre un centinaio di persone sulle Ramblas, causando tredici morti, è un uomo di vent’anni circa, capelli scuri, che indossava una camicia bianca con righe azzurre. Dopo la sua macabra corsa sul percorso pedonale più gettonato dell’Europa vacanziera, si è dato alla fuga e di lui si sono perse le tracce. Secondo alcuni testimoni, sorrideva festoso mentre sotto le ruote del suo furgone bianco venivano schiacciati uomini donne bambini, colpiti senza scampo nella folle corsa a zig zag del jihadista. Erano le cinque del pomeriggio, i telegiornali spagnoli e a cascata quelli delle tv mondiali mettevano immediatamente in scena una lunga diretta segnata dalla cascata di informazioni balbettate e contraddittorie, incluse false piste come quella dell’asserragliamento di due terroristi in un noto locale turco della zona, che la polizia intorno alle 20 avrebbe smentito.
Sulla passeggiata tra le più famose del mondo ripiombava così uno spettro che la Spagna ha conosciuto tredici anni or sono. Era l’11 marzo del 2004, quando ordigni esplosivi piantati da una maxi cellula qaedista nei treni dei pendolari deflagravano nei pressi della stazione di Atocha a Madrid, causando 191 morti e centinaia di feriti, l’attentato di matrice jihadista più grave che l’Europa abbia mai sperimentato. Da allora, l’allerta delle autorità spagnole non è mai scemato, come dimostrato dai duecento arresti per terrorismo registrati in questi quasi tre lustri. Come tutti i paesi europei, la Spagna ha fornito al jihad siro-iracheno il suo contributo in termini di foreign fighters. Un contingente ristretto, rispetto a quelli di Francia, Gran Bretagna e Belgio, ma pur sempre causa di allarme per un paese che fa parte della coalizione anti-Stato islamico voluta da Obama nel 2014. Missione che, agli occhi delle belve nere che hanno fondato un califfato, rappresenta un casus belli e la giustificazione per seminare il terrore tra gli innocenti a passeggio per le strade e piazze delle nostre città.
Si è cantato troppo presto vittoria, qualche settimana fa, quando le forze alleate a guida irachena coordinate da Washington hanno liberato Mosul, roccaforte orientale di un califfato che ogni giorno perde ulteriore territorio. Gli osservatori più avveduti hanno ammonito che l’arretramento dello Stato islamico preludeva ad un aggravarsi della minaccia terroristica in Occidente, con attacchi vendicativi messi a segno per sancire la persistenza dell’utopia islamista nonostante il mondo contro. Un presagio che ieri si è materializzato nel peggiore dei modi, con il sangue di turisti giunti da 24 paesi, dal Belgio alle Filippine, versato sulle Ramblas.
La solidarietà dei leader mondiali è pervenuta puntuale, da Macron a Merkel all’inesorabile tweet di Donald Trump. Tanto basta alle autorità catalane per sfidare l’odio e dichiarare che Barcellona è da ieri la capitale della resistenza contro chi ci vorrebbe in ginocchio. L’appuntamento, annuncia il sindaco di Barcellona, è per oggi nel cuore della capitale catalana, per una marcia di unione, preghiera e di sberleffo contro i propalatori della sedizione islamista.