In questo mese di agosto i giornaloni hanno raccontato agli italiani in ferie che l’economia italiana si sta riprendendo ma contemporaneamente leggiamo che un nuovo record del debito pubblico italiano svetta gagliardo: a giugno era pari a 2.281,4 miliardi, in aumento di 2,2 miliardi rispetto al mese precedente. «Colpa» del fabbisogno delle amministrazioni pubbliche (8,4 miliardi), che è stato compensato soltanto in parte (per 6,3 miliardi) dalla diminuzione delle disponibilità liquide del Tesoro, che sono scese a 52,6 dai 92,5 miliardi di fine giugno 2016. In particolare, è salito di 4 miliardi il debito delle Amministrazioni centrali, mentre quello delle Amministrazioni locali è diminuito di 1,9 miliardi. Invariato il debito degli Enti di previdenza.
Il dato è del bollettino della Banca d’Italia «Finanza pubblica, fabbisogno e debito». A febbraio 2012, il debito era di 1.928 miliardi: in poco più di 5 anni è cresciuto del 15 per cento. E mentre il debito sale, scendono gli incassi per l’Erario nel primo semestre dell’anno. A giugno, le entrate tributarie contabilizzate nel bilancio dello Stato sono state pari a 31,6 miliardi (inferiori di 13,5 miliardi a quelle rilevate nello stesso mese del 2016). Nei primi sei mesi del 2017 le entrate sono invece state 186 miliardi, in calo del 5,8 per cento rispetto al corrispondente periodo del 2016. Il peggioramento, spiega via Nazionale, è principalmente imputabile allo slittamento delle scadenze per il versamento di alcune imposte e torna a scendere il portafoglio di titoli di Stato italiani detenuti da investitori stranieri. Secondo Bankitalia, a fine maggio il controvalore dei titoli governativi italiani detenuti da investitori non residenti risultava pari a 663,471 miliardi rispetto ai 665,120 di fine aprile dopo che a marzo il dato aveva toccato il minimo di tre anni a 662,982 miliardi. Per trovare un importo inferiore a quello segnato a marzo occorre risalire ai 655,900 miliardi di marzo 2014.Così cerchiamo di capire e meglio che sta succedendo perché “il popolo non è bue!”.
Ma cosa succede in Europa: negli ultimi cinquanta anni la spesa pubblica è cresciuta significativamente, ammontando a circa il cinquanta percento del Pil nei paesi della zona euro. In questi paesi sono state avviate numerose esperienze di revisione della spesa, volte al suo contenimento e al miglioramento della sua efficienza ed efficacia, hanno cercato di individuare modalità e meccanismi di miglioramento della produttività delle amministrazioni pubbliche sia statali che territoriali. In tal senso, la Commissione Europea considera la valutazione e il monitoraggio della performance delle amministrazioni pubbliche una condizione necessaria per migliorare la qualità della finanza pubblica e favorire la crescita economica. L’OCSE sottolinea l’importanza della valutazione della performance dell’azione pubblica come strumento di accountability.
Quando si affronta la misurazione della performance delle amministrazioni pubbliche ci si scontra con difficoltà di vario tipo tra cui la misurabilità dell’output delle amministrazioni pubbliche caratterizzate da obiettivi multipli, la scelta di metodologie statistico-econometriche adeguate, l’entità dei costi di raccolta di dati. Inoltre la misurazione dell’attività pubblica suscita diffidenza da parte dei governi soprattutto quando utilizza tecniche troppo sofisticate e complesse – oltre che una certa riluttanza, probabilmente legata a motivi elettorali o di mediazione politica, a definire obiettivi in modo preciso, ad attuare politiche pubbliche fondate prevalentemente sugli esiti di queste metodologie o ad escludere attività politicamente sensibili che presentano maggiori difficoltà di misurazione. In alternativa a queste tecniche, i governi di vari paesi OCSE, tra cui l’Italia, hanno favorito l’adozione di metodi statistici basati sul calcolo dei fabbisogni e livelli standard di spesa e dei servizi pubblici, su cui incardinare non solo la valutazione della performance delle amministrazioni locali ma anche il sistema di perequazione.
Dunque in Italia la determinazione dei fabbisogni standard rappresenta un aspetto fondamentale nel processo di costruzione del decentramento, così come definito dall’articolo 119 della Costituzione e dalla successiva legge delega n.42 del 2009 in materia di federalismo fiscale, in particolare nelle relazioni finanziarie tra il governo centrale e i livelli di governo locale (Comuni e Province). Uno dei punti principali della Legge n. 42 del 2009 è il superamento graduale del criterio della spesa storica per finanziare gli enti locali, attuato dal D. lgs. n. 216 del 2010, che stabilisce che la loro spesa per le funzioni fondamentali (servizi generali dell’amministrazione, edilizia scolastica, polizia, raccolta e smaltimento dei rifiuti, trasporto, servizi sociali) ed i livelli essenziali delle prestazioni (attualmente solo definiti in sanità con i LEA) sia garantita attraverso il finanziamento integrale sulla base dei fabbisogni finanziari standard. In altri termini, l’entità dei costi di fornitura dei servizi pubblici degli enti deve essere determinata sulla base di criteri standardizzati per evitare le distorsioni generate dal criterio della spesa storica, limitare il finanziamento di sprechi e inefficienze e favorire il principio dell’uguaglianza tra i cittadini nell’esercizio nell’accesso ai servizi essenziali. Dopo vari passaggi legislativi e barocchi e complessi e burocratici si è arrivati utilizzando un approccio econometrico a individuare il fabbisogno standard derivato a partire dalla stima della spesa storica effettiva dei servizi forniti dagli enti.
L’obiettivo della stima dei fabbisogni standard è di individuare le componenti di spesa che sono direttamente influenzate da bisogni specifici o costi di produzione locali, cui corrispondono differenziali di finanziamento tra enti locali. Esso viene calcolato per ogni funzione fondamentale a partire da una serie di fattori che hanno determinato in maniera significativa la spesa storica quali la dimensione e la struttura demografica e socio-economica della popolazione, la rete infrastrutturale di sostegno, la configurazione geografica del territorio e i servizi offerti e i conseguenti performance e a volte delle best practices. Bisognerebbe verificare la presenza di serie inefficienze tecniche e allocative nella fornitura dei servizi, e verso quelli under-standard, per valutare che le risorse aggiuntive che ottengono nella perequazione vengono effettivamente spese per aumentare e/o migliorare la fornitura dei servizi e si spera, a migliore il rendimento delle istituzioni pubbliche. E’ apertissimo il problema della qualità del servizio offerto, che al momento questi indicatori non riescono a catturare. A questo si aggiunge che per una valutazione adeguata della performance bisognerebbe tener conto anche del contesto ambientale in cui operano le amministrazioni che, a parità di competenza e di spesa, possono non essere in grado di fornire lo stesso servizio.
Sarebbe indispensabile, per arrestare la lievitazione della spesa pubblica e dunque del debito misurare veramente a livello territoriale e nazionale l’indicatore della qualità dei servizi pubblici ed una serie di indicatori di contesto economico, sociale e politico-istituzionale che forniscono informazioni preziose e arricchiscono il quadro informativo sull’azione pubblica e poi razionalizzare le risorse. O così o non ne veniamo fuori dallo sperpero.