La campagna elettorale droga i dati economici che ci vengono somministrati dai più svariati osservatori più o meno credibili sia a livello nazionale che internazionale al ritmo di pacchetti settimanali sempre più contraddittori. Sbaglia chi al governo si lancia in proclami esaltati di ottimismo. Una propria opinione la si può avere analizzando anche la situazione che si vive a casa propria. Per esempio, dai dati pubblicati dall’ufficio studi della CGIA la via Emilia non è più un luogo per artigiani. La “fuga” dei piccoli imprenditori, schiacciati dalla coda lunga della crisi e dalle logiche sempre più aggressive della grande distribuzione, continua infatti anche in questi mesi del 2017. E i numeri dell’emorragia sono impietosi: dal 2009 a oggi l’Emilia Romagna ha perso per strada 16.466 aziende artigiane, pari all’11,3% del totale. Erano 145mila, ora sono 128mila. Dunque il famoso “modello emiliano” è in fondo alla classifica tra le aree produttive del nord.
Nessuno in questi otto anni ha visto chiudere in termini percentuali così tante piccole imprese. La Lombardia, ad esempio, con cui spesso l’Emilia si paragona, è in calo del 7%. Anche il dato nazionale è migliore, visto che il calo si ferma al 9,9%. Nell’anno che molti industriali hanno salutato come quello del definitivo rilancio post-crisi, l’Emilia-Romagna si scopre fragile al pari, se non peggio, degli altri, perché le attività artigianali di cui in passato la regione Emilia Romagna aveva il primato sono in declino.
Per il 2017 il calo delle piccole ditte è dell’1,2%, altre 1.624 sparite, e anche qui la flessione è la più alta rispetto al resto del Nord-Est. Ma il centro studi di Mestre va ancora più a fondo, spiegando come a causa della crisi siano spariti interi mestieri. Le categorie più colpite sono autotrasportatori, falegnami, edili e produttori di mobili. Mentre reggono meglio parrucchieri, estetisti, taxi e quelli che lavorano nel settore alimentare. Lungo è anche l’elenco dei motivi che hanno portato a questo crollo: la crisi, il calo dei consumi, tasse, burocrazia, mancanza di credito e costo degli affitti sono le principali cause che hanno costretto molti piccoli imprenditori ad abbassare la saracinesca della propria bottega.
Un ruolo, in negativo, lo gioca la grande distribuzione, perché negli ultimi 15 anni le sue politiche commerciali si sono fatte sempre più aggressive, per molti artigiani e piccoli negozianti non c’è stata via di scampo. L’unica soluzione è stata gettare la spugna. La crisi dei consumi delle famiglie ha fatto il resto. La timida ripresa del “carrello della spesa” ha toccato quasi solo ipermercati e discount, mentre la piccola distribuzione, fatta di botteghe artigiane e piccoli negozi di vicinato, resta al palo. E anche la CNA, regina dell’artigianato romagnolo, contemporaneamente denuncia contrazione del numero di imprese soprattutto le imprese artigiane sentono ancora il prezzo della crisi economica in Romagna. A dirlo è l’indagine TrenRa della Cna di Ravenna. Nel 2016 le imprese artigiane sono diminuite di 103 unità (-0,95%) ma negli ultimi otto anni il comparto ha perso il 12,1 per cento delle aziende, pari a 1.470 realtà produttive.
L’emorragia continua nel 2017: il movimento anagrafico complessivo delle imprese ha visto chiudere altre 921 ditte (-2,28%) con una consistente diminuzione nel settore artigiano: -164 unità imprenditoriali (1,53%, si è passati da 10.716 a 10.552 aziende). Il settore tessile-abbigliamento-calzaturiero registra una ulteriore contrazione e chiude a -1,95% rispetto al dato del 2015. La meccanica di produzione, uno dei settori maggiormente penalizzato dalla crisi economica, vede un decremento delle imprese del settore pari al tre percento, confermando i trend negativi che hanno caratterizzato i quattro anni precedenti. Ragionando per aggregati, il settore manifatturiero (agroalimentare, sistema moda, meccanica e legno/arredo) registra una diminuzione dell’1,17%. L’edilizia, vero traino della crescita dell’Albo delle Imprese Artigiane fino al 2008, prosegue la contrazione (-1,24%), confermando le forti difficoltà del settore. Dal 2008, il comparto ha perso oltre il 14% delle imprese registrate. Per quanto concerne il settore dei trasporti, il 2015 si chiude con un decremento delle imprese iscritte all’Albo dell’1,95%, da ascriversi esclusivamente al trasporto merci (90% delle imprese del settore). Nella manutenzione e riparazione di auto e motoveicoli si registra una diminuzione dell’1,71%.
Nell’ambito delle attività professionali, si registra un -0,86% per il settore informatico: un ulteriore ridimensionamento dopo la battuta d’arresto di fine 2015 (-2,50%), per un settore che nel corso del 2014 era cresciuto di quasi il 2%. Questo spaccato di dati ci fa capire che in pochi si azzardano a chiamarla ripresa economica – ad eccezione ovviamente del governo – ma dopo un decennio di crisi qualcosa si sta finalmente muovendo. Il termine più usato dagli economisti è quello di “ripresina”, proprio per sottolineare i molti ostacoli che la congiuntura italiana deve ancora superare prima di poter dichiarare il cessato allarme. L’aumento del Pil potrebbe essere di circa un punto percentuale nel 2017 ma è evidente che non è un tasso di crescita soddisfacente ma per ora bisogna accontentarsi e questa è la verità.La crescita del Pil sia trascinata soprattutto dal buon andamento delle esportazioni, mentre il mercato interno continua a fare molta fatica. Le famiglie più povere, le aziende più deboli e il Mezzogiorno stanno ancora soffrendo.
Si tratta di un’ampia fetta del Paese che non partecipa alla ripresa economica, un fenomeno peraltro che non si registra solo in Italia ma in tutto l’Occidente.Dai dati che ci giungono dgli Stati Uniti, dove il Pil è in forte crescita da moltissimi trimestri Apple, Facebook e Google scoppiano di salute ma danno da lavorare a poche decine di migliaia di persone. La vittoria di Trump è figlia delle crescenti diseguaglianze all’interno della prima economia al mondo e della perdurante crisi di moltissime famiglie. in Italia si potrà affermare che la ripresa sarà solida e sostenibile solo quando ci sarà una ripresa del mercato del lavoro: e di questo per ora non c’è traccia, anche perché l’automazione e la sempre maggiore diffusione del lavoro precario rendono ancora più difficile la riduzione della disoccupazione. Dunque la timida ripresina cerca di esistere ma non può essere esaltata; continuerà a esserlo fino a che l’Italia non riuscirà a superare alcuni ostacoli a partire dalla riduzione della spesa pubblica improduttiva e dunque quando vedremo scendere il debito pubblico e utilizzare le risorse risparmiate per tagliare il cuneo fiscale, allora si potrà iniziare a pensare a una ripresa vera e propria. Fino ad allora si andrà avanti con una congiuntura trainata solo da alcuni settori, come per esempio il turismo e l’agroalimentare. Infatti è necessario adottare politiche di lungo periodo per attrarre investimenti stranieri e creare occupazione. I governi pensano troppo al breve termine; adesso sarebbe invece il momento di ridurre il debito pubblico con interventi strutturali, perché un contesto di tassi bassi come quello attuale difficilmente si ripeterà in futuro.