Fa gola alle giunte regionali di destra e di sinistra il tema dell’autonomia regionale, tornato in voga con il referendum di domenica 22 ottobre in Veneto e Lombardia, progettato per raccogliere gli umori popolari sull’autogoverno nei rispettivi territori. Referendum consultivo che, in quanto tale, non avrà conseguenze pratiche, ma che potrebbe fornire l’occasione per aprire una trattativa con il Governo centrale. Nelle aspirazioni (ma forse è meglio parlare di sogni…) dei presidenti leghisti Roberto Maroni e Luca Zaia c’è, come noto, il modello della regione a statuto speciale (che non sarà tuttavia menzionato nei quesiti) per una maggiore libertà nelle scelte economiche e, soprattutto, nella gestione delle tasse. Per dare slancio a una simile prospettiva, si è imbastita un’operazione elettorale da 20/30 milioni di euro e ben oltre, considerando anche l’acquisto di tablet per il voto elettronico in Lombardia.
TOTI NON VUOLE ESSERE DA MENO
In vista delle elezioni 2018, cavalcare le istanze autonomiste non significa soltanto rispolverare intramontabili glorie leghiste (nonostante Matteo Salvini sia poco attratto dal tema del Nord), ma anche catalizzare il più ampio consenso intorno all’insoddisfazione per la gestione del denaro pubblico a livello romano. L’iniziativa, infatti, ha innescato reazioni a catena, in primis da parte di altri amministratori di centrodestra, spronati a non essere da meno. Il governatore della Liguria, il forzista Giovanni Toti, e la sua vice di sponda Carroccio Sonia Viale, non si sono limitati ad appoggiare la proposta lombardo-veneta, ma hanno paventato in questi giorni l’ipotesi di seguire la stessa strada. In un’intervista rilasciata a Libero, Toti ha riproposto addirittura la devolution berlusconiana. La Viale, dal canto suo, ha incalzato su Facebook: “Dopo Lombardia e Veneto, anche la Liguria deve iniziare il cammino per avere più poteri dal governo centrale”. E ha aggiunto: “I maggiori poteri sapremmo utilizzarli al meglio per i Liguri ad esempio sui porti. Che ne pensate?”.
COME SI MUOVONO PD E 5 STELLE
Nelle regioni coinvolte, centrosinistra e Movimento Cinque Stelle si sono messi in scia, cercando di interpretare almeno una parte di quei malumori autonomisti di cui la Lega è portavoce. Così, ad esempio, i pentastellati lombardi hanno rivendicato non solo la primogenitura dell’iniziativa referendaria, statuti speciali a parte, ma anche la proposta di mandare in pensione carta e penna col voto elettronico. Infine i sindaci Pd dei capoluoghi di provincia lombardi si sono schierati per il sì: in sostanza il Pd non ha accettato di lasciare alla Lega il cavallo di battaglia dell’autonomia e ne ha rilanciato una rivisitazione in chiave di risanamento della spesa pubblica, mettendo in discussione il costo elevato della consultazione.
LA VIA EMILIANA DI BONACCINI
Un Pd ancora più critico, ma sempre orientato alla richiesta di una maggiore autonomia regionale, è quello rappresentato da Stefano Bonaccini (nella foto), presidente dell’Emilia Romagna, che sta seguendo un’altra strada: la possibilità di ottenere lo stesso risultato senza però indire referendum a suo parere inutilmente dispendiosi, se non al sapore di secessione. Dal giorno successivo delle consultazioni in Veneto e Lombardia sarà comunque necessario mettersi al tavolo e negoziare col Governo un nuovo ruolo per la Regione. Ed è proprio in questo senso che si è mossa la giunta emiliano-romagnola: all’inizio di questa settimana ha approvato un Documento di Indirizzi, che punta a rafforzare l’autogoverno per gestire direttamente, e con risorse certe, quattro aree strategiche: lavoro e formazione; imprese, ricerca e sviluppo; sanità e welfare; ambiente e territorio. Basterà, come sostiene Bonaccini, ricorrere alla Costituzione, che all’articolo 116 consente l’attribuzione alle regioni di ulteriori “forme e condizioni particolari di autonomia”?