Skip to main content

Molte conferme e poche novità nel discorso fiorentino di Theresa May sulla Brexit

Di Carlo Curti Gialdino

Sul discorso a Firenze del Primo ministro Theresa May circa il recesso del Regno Unito dall’UE, pronunciato il 21 settembre 2017 nell’ex Scuola allievi marescialli dei Carabinieri di Santa Maria Novella, si erano, nei giorni precedenti, spesi fiumi di parole sui media europei, che non avevano lesinato di annunciarlo addirittura come uno “snodo cruciale” nella trattativa, se non un avvenimento “storico”. Infatti, al di là della curiosità per la scelta della sede, dopo il rifiuto della May di esprimersi di fronte alla plenaria del Parlamento europeo, ci si era chiesti, in particolare, se la tradizionale posizione britannica (Brexit is Brexit), quale espressa nel discorso di Lancaster House del gennaio 2017 e nella notifica di recesso del successivo 29 marzo, sarebbe stata confermata; o se, al contrario, per sbloccare le trattative brussellesi, in pieno stallo dopo i primi tre round, sarebbero state avanzate proposte chiare sulle tre questioni prioritarie (statuto dei cittadini UE nel Regno Unito e di quelli britannici negli Stati membri UE, frontiera nord-irlandese, pendenze finanziarie), sul cui stato di avanzamento sarà fondata la decisione del Consiglio europeo prevista nel prossimo mese circa il passaggio al negoziato sulle future relazioni UE-RU.

Il discorso, sostanzialmente, conferma le posizioni di Londra e contiene ben poche novità, tra l’altro formulate in maniera non particolarmente chiara.

In due passaggi, dopo un encomio alla collaborazione con l’Italia ed il suo Presidente del Consiglio in materia di lotta al terrorismo e all’Isis, la May ammette a chiare lettere che il popolo britannico non si è mai sentito a casa propria nell’UE per la mancanza di controllo e di responsabilità diretta dei dirigenti politici e che l’Unione non è mai entrata a far parte della narrazione nazionale. Conviene pure, per un verso, che le relazioni UE-RU attraversano un periodo critico e, per altro verso, che la strada da percorrere per l’uscita appare senza dubbio difficile. Nondimeno, il Primo ministro ostenta una grande fiducia sia sulla conclusione dell’accordo di recesso sia sulle prospettive del futuro stretto partenariato.

Il ragionamento, invero, tenta di trasmettere ottimismo. Alcune posizioni, tuttavia, sono troppo note per non sembrare una specie di disco rotto, come quella secondo cui il Regno Unito ha deciso di lasciare l’Unione europea ma non l’Europa o la famiglia delle nazioni europee; oppure che, con il recesso, il RU riacquista la sovranità del Parlamento di Westminster e si libera da istituzioni e da un processo decisionale in cui c’è un deficit di democrazia.

Anche con riguardo alle questioni prioritarie da inserire nell’accordo di recesso, la May non riserva alcun colpo di scena. Si limita a ribadire che non vi dovranno essere infrastrutture fisiche alla frontiera fra Irlanda del Nord e Repubblica d’Irlanda, nonostante che sulla praticabilità di un concetto di frontiera “invisibile” rispetto al transito delle merci c’è ancora molto da discutere tra le parti. Con riguardo allo status dei cittadini UE nel Regno Unito (ed in particolare dei 600.000 italiani), il Primo ministro riafferma posizioni conosciute: il corpus del diritto UE in materia sarà incorporato nel diritto inglese e i tribunali britannici (ma non la Corte suprema), nel garantirne l’applicazione, dovranno tenere conto della giurisprudenza della Corte di giustizia europea. Nulla di nuovo, verrebbe da dire, in quanto questi aspetti già figurano nell’EU Withdrawal Bill attualmente all’esame del Parlamento di Londra.

In merito alle future relazioni, il Primo ministro conferma che il RU non è interessato né al mercato interno né all’unione doganale. Si appella alla creatività, disegnando un partenariato, dai contorni tuttavia ancora molto incerti, che desidera distante sia dal “modello Norvegia” dello Spazio economico europeo (una coperta troppo abbondante, non accettabile per il Regno Unito, riproponendo la soggezione alle regole europee, senza peraltro più partecipare alla loro formazione) sia dal recente accordo commerciale con il Canada, che non consentirebbe un mutuo accesso al mercato interno, specie nel settore dei servizi, simile a quanto avviene attualmente (quindi un plaid striminzito). Sulla soluzione delle eventuali controversie esclude che una parte debba sottostare all’altra in termini di foro competente e, quindi, ribadisce che nessun ruolo esclusivo possa essere attribuito alla Corte di giustizia europea. Propone la conclusione di uno specifico trattato tra RU e UE concernente la sicurezza europea e la cooperazione giudiziaria in materia penale.

Il recesso, continua la May, avverrà il 29 marzo 2019: conseguentemente, il RU uscirà dalle istituzioni politiche e rappresentative e gli accordi conclusi dall’UE con Stati terzi non saranno più applicati nel Regno Unito. Come a Lancaster House, si ripropone qui l’idea che è necessario un periodo di “implementazione” (cioè di transizione) verso l’accordo sulle future relazioni, in cui, per dare garanzie e certezza del diritto alle persone ed alle imprese, l’accesso al mercato continuerà nei termini attuali, in applicazione delle vigenti regole europee, per un periodo di circa due anni. Per le persone, tuttavia, sarà previsto un sistema di registrazione (tra l’altro consentito in base all’art. 8 della vigente direttiva 2004/38/CE), propedeutico all’entrata in vigore dell’accordo sulle future relazioni. È molto significativo che la May evochi proprio in questo contesto la tematica della liquidazione delle pendenze finanziarie, che, come noto, costituisce invece una delle tre questioni prioritarie dell’accordo di recesso. Su questo punto la posizione del RU difficilmente potrà essere considerata pienamente soddisfacente dall’UE e dai 27 Stati membri. Questi ultimi potrebbero essere rassicurati di sapere che, a causa del recesso del RU, non pagheranno di più o riceveranno di meno di ciò che è previsto nell’attuale bilancio UE. Ciò che però non è affatto chiaro è se la promessa del RU di onorare gli impegni contratti durante il periodo della partecipazione all’UE si fermerà al bilancio 2019 o se coprirà anche le spese figuranti nel quadro finanziario pluriennale, che comprende gli stanziamenti per impegni di spesa e di pagamento anche successivi al 29 marzo 2019. E ciò in disparte della contribuzione britannica a specifiche politiche e programmi, specie nei campi della scienza, dell’istruzione e della cultura.

In conclusione, molto rumore per quasi nulla. Si tratta ora di attendere e verificare se nel quarto round delle trattative, che inizierà il prossimo 25 settembre, i negoziatori britannici preciseranno i punti non chiariti dal Primo ministro e, soprattutto, quale ascolto riceveranno dalla controparte europea, al di là delle parole di circostanza di Michel Barnier, che ha colto nel discorso della May il segno di uno “spirito costruttivo”.

×

Iscriviti alla newsletter