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Mosse e scudisciate di Giorgio Napolitano su sinistra e dintorni dopo il voto in Germania

Napolitano

Non so, francamente, se si possa ravvisare un elemento autocritico nel duro giudizio che il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano, alla fine di una intervista al Corriere della Sera sui risultati elettorali in Germania, guardando anche oltre in Europa, ha voluto esprimere sulla sinistra, cioè sul mondo dal quale egli proviene e di cui si sente ancora parte.

“Hanno smarrito la loro funzione”, ha commentato Napolitano alludendo ai partiti, insieme, della sinistra estrema tedesca, votatasi già da tempo all’opposizione, e della sinistra socialdemocratica, che è scesa domenica scorsa ai suoi minimi storici. E che, impaurita, è ora tentata anch’essa dall’opposizione, buttando a destra la cancelliera uscente Angela Merkel. Della quale l’ex presidente della Repubblica italiana, rammaricato degli otto punti e più perduti nelle urne a causa della sua “coraggiosa” politica europeistica, ha il “massimo rispetto”. Ma di cui sarebbe pur giusto chiedersi se non sia eccessiva la disinvoltura con la quale è disposta a passare da un alleato all’altro così diversi fra di loro quali sono in Germania i socialdemocratici e i liberali, per non parlare poi dei verdi, che sono a loro volta volta così diversi dai liberali su temi e problemi non secondari, come quello dell’immigrazione.

Ma oltre alla loro funzione, i partiti di sinistra in Germania e altrove soffrono – ha detto Napolitano – di “uno scadimento evidente nella qualità dei gruppi dirigenti”. Quando glielo tradurranno in tedesco, questo giudizio del presidente emerito italiano non farà sicuramente felice l’ex presidente del Parlamento europeo ed ora anche ex aspirante alla Cancelleria di Berlino Martin Schulz. Di cui forse Silvio Berlusconi riprenderà a dire con qualche ragione di averlo reso ingiustamente famoso dandogli del kapò in uno scontro a Strasburgo, dove l’allora capogruppo socialdemocratico non era stato tenero col governo italiano di centrodestra per via dello stesso Berlusconi, che lo guidava.

Trasferito lo sguardo dalla Germania agli altri paesi europei, fra i quali l’Italia, in cui la sinistra non gode di ottima salute, passando da una scissione all’altra, e da un arretramento elettorale all’altro, Napolitano non può sottrarsi a una domanda, per quanto imbarazzante: lui personalmente quale contributo ha voluto o potuto dare perché questo “scadimento nella qualità dei gruppi dirigenti” non si consumasse nella sinistra nostrana? È una domanda non peregrina – credo – considerando il ruolo svolto da Napolitano sia nella militanza di sinistra, sia al vertice della Camera, sia al vertice dello Stato e sia infine, adesso, nel ruolo di presidente emerito della Repubblica.

Bisogna riconoscere che al Quirinale egli seppe essere incisivo nell’azione di stimolo all’ammodernamento del partito di provenienza, e delle varie edizioni succedutesi sino alla formazione del Pd. Dove nascondevano a malapena il fastidio procurato dai moniti e dalle scelte dell’allora capo dello Stato, spintosi nel 2013 a togliere l’incarico o il pre-incarico di presidente del Consiglio al segretario Pier Luigi Bersani, che si ostinava a voler fare un governo di minoranza appeso agli umori di Beppe Grillo.

Sempre dal Quirinale, Napolitano incoraggiò l’ascesa nel Pd e nel governo di Matteo Renzi, consentendogli persino di sostituire Enrico Letta a Palazzo Chigi con rito abbreviato, essendogli bastato e avanzato un semplice pronunciamento della direzione del Pd per gestire la crisi.

Ma poi, sceso dal Quirinale per stanchezza non ho mai ben capito se più fisica o politica, Napolitano contribuì a segare le gambe di Renzi. Che, dal canto suo, aveva cominciato a sbarellare più inseguendo che contrastando la demagogia antipolitica dell’opposizione grillina nella campagna referendaria sulla riforma costituzionale.

Spaccatosi infine il Pd per la solita miscela di contrasti politici e personali, Napolitano ha avuto la saggezza e il buon gusto politico, sì, di disapprovare la scissione, ma ha scommesso, pur con tutta la discrezione di un presidente emerito, sull’ascesa del guardasigilli Andrea Orlando. Che non mi sembra proprio una grande alternativa al pur ammaccato Renzi, a dispetto delle speranze o illusioni che il giovane ministro della Giustizia poteva avere suscitato all’inizio, quando anche io lo scambiai per un emulo, addirittura, di Aldo Moro per l’esordio comune al governo da guardasigilli, sia pure a distanza di mezzo secolo.

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