Siamo tutti in attesa dei risultati elettorali. Poche ore, e tutto sarà finalmente chiarito, tra una prospettiva di debole governabilità ed una di maggiore entropia. I mercati e le cancellerie sono in apprensione, dopo una campagna elettorale incapace di affrontare i nodi di fondo dell’economia italiana: primo, il debito pubblico che ci strozza, con la tassazione che se ne va a ramengo per i quasi 90 miliardi di euro l’anno che servono per pagare gli interessi sui titoli ed il ricarico che questo drenaggio di risorse comporta per il credito alle imprese ed i mutui alle famiglie; secondo, la completa illiquidità dell’economia, derivante dal disseccamento del canale di approvvigionamento bancario all’estero, dalle manovre fiscali restrittive e dal colossale ritardo nei pagamenti delle pubbliche amministrazioni alle imprese, cifrato intorno ai 90 miliardi di euro; terzo, le difficoltà crescenti dell’economia reale, stretta tra l’aggiustamento del bilancio ed il deleverage del credito.
Si sono fatte le solite chiacchiere: sulla necessità di aumentare la produttività del lavoro, la flessibilità in uscita per bilanciare quella in entrata ormai uniformemente precarizzata, sui tagli alla ridondante struttura politico amministrativa.
I compiti a casa sono stati fatti: tasse dappertutto e tagli a casaccio, con conseguenze pessime sull’economia reale, sull’occupazione, sul valore degli immobili. E’ tutto bloccato, paralizzato, in coma fiscale. Randellate a destra ed a manca, per dimostrare che non ci manca il coraggio di fustigarci: ma il cilicio andrà portato per anni, forse per sempre, perché è una ricetta sanguinosa e soprattutto inutile quella che ci si impone da anni. L’Italia deve stabilizzare subito e soprattutto ridurre un debito pubblico il cui rapporto sul Pil è arrivato nel 2012 a livelli mai visti prima in epoca di pace, neppure nel ’93, per colpa degli interessi crescenti e del contemporaneo contesto di recessione: è una insostenibilità conclamata di cui nessuno parla. Ci si illude di ripagare il debito usando le imposte, anziché ridurne il peso con la crescita. Tassi di interesse reali positivi ed economia in recessione sono una miscela esplosiva.
La politica ufficiale è stata prona verso i diktat europei. Tutti, dal centrodestra colpevole di insipienza al governo, al centrosinistra che cerca dappertutto sponde per legittimarsi, ai tecnici che non hanno mai neppure osato chiedere una chiara contropartita politica alla Unione europea e monetaria alla Bce, di fronte alla politica di sacrifici che veniva imposta. Per questo è montata l’insofferenza ai vincoli di stabilità che la partecipazione all’euro comunque comporta: una insofferenza legittima, che costringerà tutti i partiti tradizionali a fare un profondo riesame delle proprie posizioni.
L’Italia elettorale stavolta non si è divisa più tra i sostenitori del mercato, incarnati nel centrodestra dal popolo delle partite Iva, ed i fautori dello Stato che redistribuisce con il prelievo fiscale e la tassazione. Forse è la prima volta, anche rispetto al ’94, che non c’è una rivoluzione liberale dietro l’angolo a prometterci salvezza e benessere, come è scomparsa anche a sinistra la speranza che sia la finanza pubblica a divenire un motore dello sviluppo.
Serviva molto di più. Molto di più che promettere rimborsi dell’Imu da una parte e leggi sul conflitto di interessi dall’altra. Serviva un nuovo patto fiscale: lo Stato si accontenterà del gettito fiscale nominale già raggiunto, con le entrate che rimarranno inchiodate al livello attuale, come pure le spese. Neppure un euro di più, né di tasse né di spese, mai più. Entrate e spese scenderanno invece costantemente in termini reali, per via dell’inflazione, anno dopo anno. In cambio, ci doveva essere la completa detassazione degli utili di impresa reinvestiti, la defiscalizzazione di tutti i maggiori redditi, personali e professionali, così come l’esenzione sui nuovi assunti. Serviva un nuovo patto con il capitale finanziario e con le famiglie: scambiare i titoli del debito pubblico detenuti in Italia con titoli del Patrimonio, con un rendimento minimo ma la garanzia di una rivalutazione esentasse per cinquant’anni. Serviva una colossale immissione di liquidità nel sistema delle imprese e nelle banche, con la emissione di titoli non commerciabili, ma riscontabili alla pari presso la Bce, per la estinzione dei debiti delle pubbliche amministrazioni e per compensare la crescita delle sofferenze.
Era tutto da discutere, da contrattare a muso duro all’interno, a livello europeo e con la Bce. Ed invece, non si è fatto niente. Peggio, ci si è messi a bussare alle porte dei soliti potentati, politici e finanziari, per ricevere un endorsement, il solito ridicolo “sì, mi ha soddisfatto” che si riserva ai domestici in cerca di credenziali.
Ed è ancora tutto da discutere, da contrattare: non possiamo scoprire che il pil italiano per lavoratore impiegato, compresi i pubblici dipendenti, è superiore a quello della Germania e poi continuare a parlare della produttività del lavoro o della necessità di licenziare. Bisognava parlare della produttività del capitale e delle rendite di posizione: dall’energia alle assicurazioni, dalle imprese in concessione alle aziende regionali e municipali. Gli italiani sono furbi: finora si sono sempre arricchiti, chi lavorando in proprio e chi attraverso le spese pubbliche. Chi evadendo e chi rubando, come accade in tutto il mondo. Aver chiesto agli italiani di impoverirsi senza fiatare, per espiare chissà quali colpe, è stato un errore. Nel nuovo Parlamento ci sarà tempo, finalmente, per parlare.