Anticipiamo ampi stralci della lectio magistralis con cui, nel pomeriggio del 4 ottobre a Firenze, il cardinale presidente della Conferenza episcopale italiana inaugura l’anno accademico della Facoltà teologica dell’Italia centrale, nel ventennale della sua costituzione (L’Osservatore Romano).
Papa Francesco, lo ricorderete bene, affermò proprio nella cattedrale di Santa Maria del Fiore che «Gesù è il nostro umanesimo», e ci aiutò a concepirlo entro le immagini, presenti nel complesso pittorico del cupolone, dell’Ecce homo e del Giudice universale. Due “stadi” della vita del Cristo, e quindi — come direbbe La Pira — della “biografia del mondo”, di cui il Papa sottolineava la continuità: il Cristo giudice della storia universale è lo stesso Gesù sottoposto dal potere umano alla volontà omicida degli uomini. Il Cristo crocifisso è il Cristo risorto che giudica e orienta la storia umana.
Il Papa, in quella occasione, non diede ricette alla Chiesa italiana, ma ci “riconsegnò” l’esortazione apostolica Evangelii gaudium, e raccomandò, a ogni livello ecclesiale, la sua ricezione sinodale. Nessuna chiesa locale dovrebbe accogliere l’invito alla conversione pastorale senza far tesoro della propria storia, ma Firenze e la sua Facoltà teologica — lasciatemi parlare qui non tanto come fiorentino, ma come presidente della Conferenza episcopale — hanno una responsabilità speciale: mi riferisco alle radici del novecento ecclesiale toscano. Esse non sono relegate al passato e hanno bisogno della linfa generosa della Chiesa di oggi per una sintesi appassionata con le sfide del momento presente. I frutti maturi del novecento ecclesiale fiorentino e toscano vanno ancora colti nella loro interezza. È tempo, allora, di memoria condivisa, e mai come adesso questa memoria condivisa è urgente e finalmente possibile. Considero un segno dei tempi la visita di Papa Francesco alla tomba di don Lorenzo Milani.
«Non siamo — come dice il Papa — in un’epoca di cambiamenti, ma nel cambiamento d’epoca», per questo l’Evangelii gaudium è un appello a non lasciare le cose come stanno. Una nuova tappa, infatti, della vita della Chiesa si è aperta perché l’Evangelii gaudium ha inaugurato una nuova fase della ricezione del concilio Vaticano II, più capace di ossigenarsi col respiro delle periferie (la cattolicità è una sinfonia teologale che permette di condividere la medesima fede, nel medesimo Cristo a partire dalla pluralità delle culture del mondo), più cosciente che la sua sottomissione alla Parola del vangelo è un continuo evento teologale e per questo non più impaurita dalla collegialità e dalla sinodalità, più consapevole del fondamento teologico e dottrinario della “medicina della misericordia”.
Non è vero che il nostro mondo, in qualunque modo lo si voglia definire (post-moderno, post-secolarizzato, post-cristiano) sia refrattario al vangelo, è semmai vero che il vangelo costituisce l’unica rivoluzione che questo mondo ancora attende. La rivoluzione che annunciando la misericordia di Dio, rimette al centro l’uomo e lo libera dalla idolatria del profitto e dei consumi che produce scarti umani, dal razzismo pratico che ci lascia indifferenti davanti alle tragedie dell’umanità perché in esse non riconosciamo la nostra stessa umanità, dalla tirannia della solitudine e della competizione perenne, dalla follia del principio per il quale tutto ciò che è tecnologicamente possibile ed economicamente profittevole è anche fattibile, a prescindere dalla dignità della vita umana e dagli equilibri ecologici. Occorre però che ci lasciamo rivoluzionare la vita da Gesù Cristo e che il suo vangelo ci spinga fuori da tutti i recinti che ci dividono dagli altri: «La rivoluzione parte da me, ma non finisce in me» diceva don Mazzolari.
Le facoltà teologiche hanno parte importante nel processo di “conversione pastorale della Chiesa”, purché non siano dei laboratori asettici dove si compongono e scompongono teologumeni in maniera astratta e ideologica. Le facoltà teologiche e gli istituti superiori di scienze religiose devono avere — come dice il Papa — il coraggio di «abitare le frontiere». Per la teologia abitare le frontiere non significa disertare le biblioteche ma sentire cum ecclesia. Questa espressione vuol dire, certamente, accogliere il magistero dei vescovi e del Papa con religiosum obsequium e fidei assensus, e questo, sia ben chiaro, anche quando non dovesse corrispondere a una propria astratta e magari severa idea di ortodossia. Ma il magistero non basta, occorre anche sentire come sente il santo e amato popolo di Dio, là dove il Vangelo è trasmesso nella vita della Chiesa. Il più grande teologo e il più grande pastore, cari amici, prima di portare nella sua riflessione e nella sua missione la teologia appresa all’università, vi porta quella dalla sua mamma e della sua comunità ecclesiale. Pensate a san Giovanni Paolo II e alla sua ricezione accrescitiva dell’insegnamento conciliare sul dialogo con gli ebrei e sul dialogo interreligioso, frutto di una fede vissuta a contatto diretto e drammatico con la tragedia dello sterminio degli ebrei.
La teologia scientifica non può prescindere dalla fede che il popolo di Dio vive e trasmette nei contesti reali e quotidiani dell’esistenza. Ciò è vero anche nella nostra società dove la fede che molti vivono non è più veicolata da quella religiosità popolare attraverso la quale è passata per secoli.