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Vi spiego perché Matteo Renzi sbaglia sulla premiership

Il caso vuole che compiano dieci anni contemporaneamente il Pd di Matteo Renzi, con una festa organizzata al teatro romano dell’Eliseo, e un celebre spot televisivo in cui George Clooney si presenta appunto ad una festa senza la bottiglia di un celebre liquore chiestagli dalla padrona di casa, e ne viene perciò respinto.

Il Clooney dell’Eliseo può essere considerato l’ex presidente del Consiglio Romano Prodi, che però non ha avuto bisogno neppure di presentarsi alla porta, non avendo ricevuto l’invito per quella che il suo amico Arturo Parisi ha definito “una sciatteria colposa”, riservata peraltro anche a lui. Di cui gli organizzatori della festa conoscevano così bene gli umori, da funerale della democrazia, da avergli risparmiato la spiacevole incombenza di parteciparvi.

In particolare, Parisi ha deciso di mettersi in lutto per la legge elettorale appena approvata dalla Camera e destinata, salvo sorprese, ad essere ratificata dal Senato entro questo stesso mese, prima che cominci l’assorbente sessione di bilancio, monopolizzata dal percorso parlamentare della legge di stabilità finanziaria.

Eppure la riforma elettorale ormai nota come Rosatellum per la brutta abitudine di tradurre in latino il nome del relatore o del promotore, che in questo caso è il capogruppo del Pd a Montecitorio Ettore Rosato, era l’unica possibile nelle attuali condizioni politiche per raccogliere la maggioranza più larga in Parlamento e garantire contemporaneamente allo stesso Pd, pur sceso dal 40 per cento dei voti delle elezioni europee del 2014 al 27 e rotti dei sondaggi attuali, quella variante dell’autosufficienza propostasi all’atto di nascita che è la centralità: cioè una condizione essenziale per la formazione, dopo il voto, di maggioranze parlamentari non condizionate dal partito orgogliosamente più antisistema sulla piazza. Che è quello di Beppe Grillo e delle controfigure politiche cui di volta in volta il comico genovese potrà ricorrere col combinato disposto del regolamento del suo movimento e del giochetto digitale delle consultazioni del pubblico pentastellato.

Renzi tuttavia fa male a scambiare la centralità del suo partito per una propria irrinunciabile candidatura a presidente del Consiglio, come ha fatto in una intervista a Repubblica appellandosi allo statuto del Pd. Che è appunto uno statuto di partito, non la Costituzione della Repubblica appena evocata dal presidente emerito Giorgio Napolitano per ricordare che i governi sono nominati dal capo dello Stato. Al quale non vi sono regolamenti di partito o leggi elettorali che possano imporre il rispetto di qualche candidatura o aspirazione a Palazzo Chigi, anche se in almeno quattro occasioni i presidenti della Repubblica, fra i quali lo stesso Napolitano, si sono lasciati contenere, diciamo così, negli ultimi vent’anni e più: nel 1994 da Silvio Berlusconi, nel 1996 da Prodi, e nel 2001 e 2008 ancora da Berlusconi, sempre all’indomani di elezioni, ordinarie o anticipate.

E’ comprensibile che Renzi per ragioni propagandistiche, interne ed esterne al suo partito, cerchi di salvaguardare le sue aspirazioni al ritorno a Palazzo Chigi. Ma è chiaro che, dopo le elezioni, egli non potrà compromettere la centralità del suo movimento per tenere ferma la propria candidatura a presidente del Consiglio. Renzi dovrà rassegnarsi a sostenere il collega di partito più in grado di tenere unita una coalizione di governo. Lo statuto del Pd potrà attendere, o essere modificato, in attesa che la formazione politica nata nel 2007 possa festeggiare i 20 anni da partito di maggioranza assoluta. Ma sarà obiettivamente difficile.


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