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Non solo nucleare, ecco la nuova strategia Usa sull’Iran

Usa

State sereni, possiamo dire ai numerosi orfani del presidente Obama affetti da “trump-fobia” nel mondo mediatico e politico. Il presidente Trump non ha (ancora) ucciso l’accordo sul programma nucleare iraniano voluto dall’ex presidente Usa e premio Nobel per la pace (e forse non lo farà mai). “Fix it or nix it”, modificarlo o affossarlo, è il messaggio lanciato nell’ambito di una più complessa revisione della strategia americana nei confronti dell’Iran illustrata dal presidente venerdì scorso. Un certo allarme è comunque giustificato tra chi in Europa si era cominciato a leccare i baffi pensando all’Iran come a una sorta di nuovo Eldorado per gli affari.

A prescindere dalla fine che farà l’accordo sul nucleare, come più volte avevamo anticipato su Formiche.net si tratta di una svolta a 180 gradi della politica americana verso Teheran e il Medio Oriente: dall’appeasement di Obama al contenimento e al confronto laddove necessario. Mentre sul programma nucleare la de-certificazione rappresenta solo il primo passo di uno sforzo di medio-lungo termine verso la rinegoziazione dell’accordo, il cambio di strategia implica misure immediate e di breve-medio termine in grado comunque di complicare i piani commerciali europei con Teheran. Un solo esempio: le sanzioni imposte da Washington al programma missilistico iraniano e ai Guardiani della Rivoluzione, il corpo sotto il diretto controllo della Guida Suprema. Il problema è che in Iran non c’è alcuna trasparenza finanziaria e i pasdaran hanno le mani in pasta nell’economia e nel settore finanziario del Paese tramite entità terze. Insomma, i proventi di accordi commerciali possono finire nelle loro tasche ed essere usati per finanziare il programma missilistico e attività di sostegno al terrorismo. A quel punto, banche e compagnie europee finirebbero sotto la scure delle sanzioni americane. E questo senza nemmeno sfiorare l’accordo sul nucleare. E’ un gioco che vale la candela? Gli europei dovranno fare molta attenzione a chi sono i loro partner d’affari in Iran, chi i reali beneficiari delle compagnie con cui firmano contratti.

Ecco perché sorprende la miope dichiarazione della Mogherini (molto più cauta quella congiunta Merkel-Macron-May) secondo cui un solo paese non ha il potere di “terminare” l’accordo. Certo, se Teheran e i 4+1 vogliono andare avanti senza gli Stati Uniti, nessuno lo impedisce. Ma le implicazioni del cambio di strategia Usa sugli scambi commerciali Ue-Iran, sommate alla concreta possibilità che uscendo gli Stati Uniti dall’accordo, anche Teheran si ritiri, potrebbero dimostrarsi argomenti sufficienti a convincere gli alleati europei della necessità, proprio per salvare accordo e affari, di sollecitare anche loro gli iraniani a tornare al tavolo del negoziato per “riparare” falle che tutti riconoscono esserci nell’intesa. Alcuni funzionari europei hanno ammesso che “il clima è già cambiato”, ci si sta già chiedendo come affrontare le carenze dell’accordo in modo che non salti, mentre la pressione su Teheran può ulteriormente aumentare con sanzioni non relative al nucleare, che quindi non violano l’accordo (come quelle annunciate sui Guardiani della Rivoluzione). “E’ un test per gli europei, per capire se possono svolgere un ruolo autonomo sulla scena politica mondiale, indipendente dagli Stati Uniti”, è stato il commento provocatorio, ma pieno di significati del ministro degli esteri iraniano Zarif, che ha anche precisato: “Ciò che è importante per noi, è che gli Usa siano tenuti a rinnovare la sospensione delle sanzioni”.

Dunque, quello nucleare è forse il nodo più vistoso, ma non è né l’unico, né il più intricato, né sarà il primo ad essere affrontato da Washington nel dar seguito alla nuova politica, che guarda alla “totalità delle minacce derivanti dalle attività maligne del governo iraniano”. L’obiettivo strategico è quello di neutralizzare l’influenza destabilizzante iraniana in Medio Oriente, i suoi tentativi di sovvertire l’attuale ordine regionale per diventarne potenza egemone. Il programma nucleare e quello missilistico sono pilastri importanti di questa politica, ma più urgente è contrastare la crescente influenza e presenza anche militare – delle milizie filo iraniane e direttamente dei pasdaran – in Iraq e in Siria, fino ai confini con Israele. Nella nuova strategia Usa vengono citati i tentativi del regime iraniano di alimentare il suo “network del terrore” con armi sempre più distruttive e di stabilire un collegamento diretto, via terra, un corridoio strategico tra l’Iran e il Libano (dove risiedono gli Hezbollah). E’ ragionevole ritenere che sarà questo, man mano che si avvicinerà la definitiva sconfitta dell’Isis, il primo fronte della nuova strategia di contenimento dell’espansionismo iraniano.

Tornando all’accordo sul nucleare, Trump ha annunciato che non lo “certificherà” più al Congresso (dopo averlo fatto contro voglia per due volte da quando è alla Casa Bianca). Ma questo, va precisato, non significa che gli Stati Uniti si ritireranno unilateralmente dall’intesa, né li rende in alcun modo inadempienti. E nemmeno è scontato che Trump chiederà al Congresso di ripristinare le sanzioni che erano in vigore prima della conclusione dell’accordo. La de-certificazione passa la palla al Congresso, che avrà 60 giorni per decidere sulle sanzioni o su altre misure. Significa che Trump sta chiedendo al Congresso di aiutarlo a elaborare i termini per migliorare l’accordo, magari vincolando la conferma della sospensione delle sanzioni sul nucleare all’inclusione di tali termini in una nuova intesa, e agli alleati europei di unirsi agli sforzi per convincere Teheran a rinegoziarlo.

La de-certificazione è dunque il primo passo di un tentativo, certamente difficile ma doveroso, di correggere le falle dell’accordo che, anche secondo il segretario di Stato Tillerson, pongono l’Iran sulla strada della Corea del Nord per quanto riguarda il programma nucleare e quello missilistico. Alla scadenza di questo accordo, potremmo trovarci una nuova Corea del Nord, ma nel mezzo della polveriera mediorentale, dove anche Israele dispone di testate nucleari e altri regimi, avversari di Teheran, come Egitto e Arabia Saudita, vorranno a quel punto possederne. L’accordo voluto da Obama, come ha osservato il prof. Emanuele Ottolenghi in una intervista di questa estate, “non fa altro che ritardare di qualche anno il momento della crisi, permettendo però a Teheran di arrivarci in una situazione tecnologica, industriale, economica e politica molto più favorevole di quella di oggi”.

A questo punto qualche precisazione va fatta sulla legge che prescrive alla Casa Bianca di “certificare” ogni tre mesi al Congresso l’accordo sul nucleare. Si tratta di una legge bipartisan approvata dal Congresso per riprendersi un minimo di controllo su un accordo che l’ex presidente Obama ha negoziato non come trattato – che avrebbe richiesto una ratifica da parte del Senato che difficilmente sarebbe mai arrivata. Uno dei molti casi in cui Obama ha in modo molto spregiudicato e controverso scavalcato le prerogative del Congresso. Questa legge richiede alla Casa Bianca di certificare più cose. Non solo la piena adempienza dell’accordo da parte di Teheran, ma anche che la sospensione delle sanzioni in ragione di quell’accordo è ancora negli interessi della sicurezza nazionale degli Stati Uniti. Nonostante abbia dichiarato che l’Iran non rispetta l’accordo “nello spirito” – basti pensare al programma di missili balistici che prosegue a pieno ritmo, alle attività di destabilizzazione del Medio Oriente e al sostegno del terrorismo – Trump non lo de-certificherà per il mancato rispetto della sua lettera, ma proprio perché trattandosi di un cattivo accordo, per le sue falle strutturali, non lo ritiene negli interessi della sicurezza nazionale. Dunque, dal punto di vista politico, l’adempienza o meno da parte di Teheran non è decisiva.

Nel suo discorso di venerdì il presidente Usa ha spiegato di aver ordinato alla sua amministrazione di “lavorare a stretto contatto con il Congresso e i nostri alleati per affrontare i molti gravi difetti dell’intesa”. Tra questi difetti, Trump ha citato innanzitutto l’insufficiente adempimento e la scadenza dell’accordo, il fatto che sia solo temporaneo lo stop al programma nucleare iraniano, mentre dovrebbe essere reso permanente. Ma anche la totale assenza nell’accordo del programma di missili balistici che Teheran sta portando avanti – proprio il tipo di missili che serve a trasportare testate nucleari. A nessuno intellettualmente onesto può sfuggire l’importanza di questi elementi.

“Vogliamo iniziare un processo per eliminare questi difetti” lavorando “insieme ai partner”, ha spiegato il segretario di Stato Rex Tillerson parlando alla Cnn. “Dobbiamo realmente gestire un numero molto più vasto di minacce” da parte dell’Iran e “diverse violazioni tecniche” dell’accordo. Per questo dobbiamo “lavorare con gli altri partner e chiedere di essere più intransigenti sul rispetto dell’accordo, chiedere più ispezioni e più trasparenza”. “Penso che in questo momento rimarremo nell’intesa”, ha detto la Haley a Meet The Press della Nbc. “Per vedere come possiamo migliorarla. Questo è l’obiettivo. Non è uscire dall’accordo”.

Solo in caso di insuccesso la Casa Bianca valuterà se abbandonarlo o meno. Trump in realtà ha avvertito che in quel caso sarà “terminato”, ovviamente per massimizzare con una minaccia credibile la pressione sugli altri firmatari. Ma l’uscita unilaterale degli Usa dall’accordo avrebbe in ogni caso i suoi costi, quindi non è affatto scontata.


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