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Il Ramadan nuoce alla competitività dei Paesi islamici?

Malgrado anomalie derivanti dalla disponibilità di giacimenti petroliferi, il mondo islamico è perlopiù indietro rispetto all’Occidente nello sviluppo economico e tecnologico. Eppure, la fine del Medioevo è spesso attribuita all’allargamento dei contatti europei con il “più avanzato” Levante. Dobbiamo lo zero, l’algebra, buona parte dell’alfabeto e almeno il nome dell’alcool alle civiltà ad est. La medicina come disciplina sperimentale arriva dal vicino Oriente. Poi l’orologio si è fermato. Le Crociate sono fallite, ma quando gli europei sono tornati ad est in tempi più o meno moderni, sono tornati da conquistatori.

L’Islam non è una razza, né una singola cultura. Non è nemmeno tanto arabo. Il più popoloso paese islamico è l’Indonesia, seguita dal Pakistan, Bangladesh e Nigeria. Siccome l’elemento che accomuna queste nazioni a quelle del Levante e al bordo sud del Mediterraneo è proprio la fede musulmana, gli studiosi scavano nell’Islam stesso per trovare la soluzione al puzzle. Il divario è spesso attribuito al divieto al pagamento degli interessi – in Occidente sarebbe stata proprio la “scoperta” del credito uno dei principali motori dello sviluppo – oppure a fattori culturali come l’educazione. Sono spiegazioni che descrivono più il sintomo che la causa. Anche la Chiesa imponeva a lungo (con una ferocia più retorica che reale) un divieto al pagamento degli interessi. E la scuola europea del tardo Medioevo somigliava molto alla madrassa islamica: nella matrice religiosa, nello studio insistente di pochi classici e una didattica basata sulla memorizzazione—nonché l’esclusione delle femmine… Le due macro-civiltà hanno preso strade diverse. Perché? Negli ultimi anni è emersa prepotente un’eclatante ipotesi che trova una causa nelle usanze islamiche relative alla festa del Ramadan, che impone di astenersi dall’alba al tramonto da ogni cibo e bevanda per un mese.

Il digiuno è un precetto coranico – il quarto dei “Cinque pilastri dell’Islam” – un obbligo per ogni musulmano adulto, eccezione fatta per malati, viaggiatori o altri impossibilitati dal rispettarlo. Chi ne negasse l’obbligatorietà senza giustificazione sarebbe un miscredente, colpevole della “empietà massima” (takfir), un’omissione che, nell’Islam classico, autorizzava la pena di morte. Il precetto non cita la gravidanza come eccezione, ma il comune uso islamico l’ammette. Tuttavia, molte donne islamiche incinte – specialmente nei primi mesi – digiunano lo stesso: più per rispettare la loro fede che memori dell’antica pena capitale. A partire dal 2011 una serie di studi ha analizzato come il digiuno del Ramadan nelle prime fasi della gravidanza influenzi lo sviluppo fisico, il rendimento scolastico e il successo economico del nascituro. I risultati sono drammatici. Coloro le cui madri digiunavano mentre erano nell’utero hanno la vita più breve, la salute peggiore e i risultati scolastici inferiori. Almond e Mazumder (2011) dimostrano che le disabilità mentali associate all’esposizione in grembo al digiuno sono il 15% dei casi islamici: Majid (2013), che gli adulti esposti al digiuno in fase prenatale lavorano mediamente 4,5 ore in meno alla settimana. Timur Kuran, un’economista e islamista alla Duke University, di origine turca, scrive: “Le prove sono incontrovertibili. Il rituale del digiuno, com’è attualmente praticato, deprime la competitività economica delle società a maggioranza islamica”


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