Ieri, 23 ottobre, in Lussemburgo, il Consiglio in formato “Occupazione”, cioè composto dai ministri del lavoro dei ventotto Paesi membri dell’Unione europea – per l’Italia Giuliano Poletti – ha raggiunto un accordo di base sui cosiddetti lavoratori distaccati, cioè quelli che vengono spostati da un Paese membro a un altro per lavorare “temporaneamente” e con il salario del Paese d’origine.
UN TEMA POLITICO
È un tema di gran rilievo politico, questo del dumping sociale, rilanciato da Marine Le Pen durante le ultime presidenziali francesi vinte da Emmanuel Macron. È anche ricorrente, utilizzato tra l’altro nelle campagne dei referendum francese (contro il “plombier polonais”, l’idraulico polacco che rubava il lavoro all’artigiano locale) e olandese sulla Costituzione europea del 2005. È stato oggetto di almeno quattro sentenze della Corte di Giustizia europea che hanno teso ad ammettere la totale libera circolazione dei lavoratori (i casi Viking, Laval, Rüffert e Lussemburgo) mitigate da una più recente che ammette la possibilità di imporre un salario minimo (caso Regiopost, del 17 novembre 2015). Se non si modifica la norma del 1996, il problema resta aperto, con i relativi attacchi da parte dei movimenti anti-europei e con il dumping, anche se limitato in alcuni Paesi (tra cui Francia, Germania, Paesi Bassi) e in alcune aree (nelle costruzioni, nei servizi).
Il tema riguarda solo l’uno per cento dei lavoratori europei. Tuttavia, in cifre assolute, nel 2015 la Francia ha ospitato circa 300 mila lavoratori distaccati (ma ufficialmente 177 mila), la Germania 418 mila: nel dibattito interno, “sottratti” ai lavoratori nazionali. L’Italia ne ha ospitati 59mila, ma la questione è molto meno sensibile sia per i numeri sia perché il nostro Paese tende a sua volta a esportare lavoratori “temporanei” almeno in parte a salario d’origine, passando dai 40 mila del 2010 ai 91 mila del 2015. Poi le cose si complicano se si osserva che anche Francia e Germania esportano lavoratori: 139 mila la Francia, 240 mila la Germania. Una specie di bilancia import-export, soltanto che i lavoratori esportati da Francia e Germania non hanno effetti di dumping sociale, perché tendenzialmente non prendono salari più bassi.
La discussione sul tema dura da parecchio tempo. Emmanuel Macron ne ha parlato con i presidenti dei Paesi di Visegrad (Polonia, Ungheria, Repubblica ceca, Slovacchia) dal 23 al 25 agosto scorsi, e ha ancora ripreso l’argomento nella conferenza stampa dopo il Consiglio europeo, venerdì scorso, 20 ottobre.
Il Consiglio ci ha dibattuto ieri per 12 ore di fila. Alla fine ha adottato una decisione, che permetterà di scrivere il testo definitivo con la Commissione e con il Parlamento europeo. Il contenuto proposto è semplice: la durata massima di distacco del lavoratore sarà di 12 mesi, estendibile di altri 6 su base motivata, con un periodo di transizione di 4 anni, e tre anni per il recepimento nella propria legislazione. Il problema dei lavoratori distaccati nel settore del trasporto (grana difficile da risolvere) sarà affrontato con una norma specifica. Il salario – come ha detto la Commissaria Marianne Thyssen – sarà equivalente rispetto al luogo in cui si svolge l’attività.
Al voto i Paesi contrari erano i Baltici, la Polonia, l’Ungheria, tra gli astenuti la Croazia e l’Irlanda, ma favorevoli erano alcuni Paesi esportatori di manodopera temporanea, come la Romania, la Slovacchia e la Repubblica ceca.
IL PILASTRO EUROPEO DEI DIRITTI SOCIALI
Trattandosi di un tema divisivo, prima di infilarsi nel turbine della discussione, il Consiglio ha potuto mostrare altri risultati, adottati con maggiore tranquillità. Oltre a una serie di atti legislativi e non legislativi di varia natura (dalle formalità per il trasporto marittimo passeggeri all’accesso al lavoro per non vedenti), si sono fatti progressi sulla revisione del coordinamento dei servizi di sicurezza sociale (servizi previdenziali o sanitari per il pensionato o un cittadino domiciliato in un altro Paese membro: per capire a chi si devono pagare i contributi). Infine si è approvato il cosiddetto “Pilastro europeo dei diritti sociali”.
Il Pilastro è un elenco di 20 principi politici nelle aree delle pari opportunità, dell’accesso al mercato del lavoro e alle condizioni di lavoro, che saranno proclamati ad un Vertice sul lavoro a Gothenborg il prossimo 17 novembre. Non vanno presi sottogamba, perché – festìna lente – poi li si ritroverà in direttive e norme da recepire nell’ordinamento nazionale. Per capire come la macchina dell’Unione procede, il Pilastro si accompagna ad altre quattro aree di sviluppo politico europeo: l’unione economica, quella finanziaria, quella fiscale e quella politica, così come erano tracciate nel “Rapporto dei Cinque Presidenti” del 22 giugno 2015.
Un processo di decisione lento, concertato, ragionevole e inesorabile.