L’espansione economica cinese in Asia centrale e la stabilità dell’estremo occidente della Repubblica popolare, lo Xinjiang, sono legati alla sicurezza della regione. Secondo l’ultimo rapporto dell’International Crisis Group, China’s Central Asia Problem, Pechino è ormai una forza economica nella regione.
Tra il 1992 e il 2010 gli scambi commerciali con i cinque stati centrasiatici sono passati dal 527 milioni di dollari a 30 miliardi l’anno. La regione è per la dirigenza cinese riserva di energia e materie prime e allo stesso tempo un mercato per le proprie merci. Senza contare le centinaai di milioni di dollari in investimenti pompati dalla Cina nei Paesi confinanti. La prima preoccupazione di Pechino, scrivono gli autori, è garantire la stabilità nello Xinjiang, terra di uiguri e tensioni etniche esplose nell’estate del 2009 con violenti scontri.
La Repubblica popolare condivide oltre 2.800 chilometri di frontiere con il Kazakistan, il Kirghizistan e il Tagikistan. Al centro della propria strategia c’è l’obiettivo di allacciare legami sempre più stretti tra questi Paesi e lo Xinjiang, sottolinea il centro di ricerca europeo con sede a Bruxelles. Scopo finale sarebbe quello di isolare l’estrema frontiera cinese e le repubbliche ex sovietiche dalle conseguenze negative del ritiro delle truppe internazionali dall’Afghanistan nel 2014, con il cui governo la dirigenza cinese tenta di tessere buoni rapporti come ben evidenziato dalla visita del boss della sicurezza Zhou Yongkang a Kabul lo scorso autunno.
La crescente influenza cinese che va a sostituirsi alle tradizionali forze russa e statunitense deve tuttavia fare i conti con una situazione di sempre maggiore instabilità e insicurezza. I governi con i quali Pechino stringe accordi lungo la nuova via della seta, o sarebbe meglio definirla via del gas, si contraddistinguono per la corruzione fino ai più alti livelli del sistema, tale che a trarre beneficio dall’intervento cinese sono ristrette élite. I regimi centro-asiatici sono indicati quindi come parte del problema e non della soluzione.
A questo si aggiugne la percezione negativa che le popolazioni locali rischiano di avere dell’intervento cinese nel timore del degrado ambientale, di scarse condizioni di lavoro, dello sfruttamento delle risorse; dell’ulteriore corruzione che si accompagna all’arrivo degli imprenditori cinesi.
Investire non basta. Pechino suggeriscono gli esperti del Crisis Group deve mettere in campo iniziative diplomatiche e premere per riforme economiche di cui possano trarre beneficio tutti i cittadini dell’Asia centrale, non facendo semplicemente affidamento sull’Organizzazione per la Cooperazione di Shanghai, per garantire la propria sicurezza nella regione. Non è infatti in dubbio se avverranno disordini politici, scrive Eurasianet, ma quando avverranno. E Pechino dovrà farsi trovare preparata.