Ora, a urne chiuse per fine partita e rovesciate per svuotarle delle schede da contare con la calma abituale, quasi genetica, degli isolani di ogni latitudine, lo sconfitto designato già in apertura della campagna elettorale siciliana, che è il segretario del Pd Matteo Renzi, può consolarsi solo in un modo. È quello di avere evitato, nella disgrazia, il sorpasso del suo partito da parte degli scissionisti raccoltisi attorno alla candidatura di Claudio Fava. I quali si erano proposti esattamente questo risultato, al di là dell’elezione scontata di un governatore di tutt’altro segno politico, per sghignazzare sul morto, come nei peggiori riti tribali.
Un altro modo di consolarsi Renzi lo avrebbe avuto con il confronto televisivo annunciato con il grillino Luigi Di Maio, che però gli ha clamorosamente dato buca annullando l’appuntamento col pretesto della sconfitta di Renzi in Sicilia, pur scontata quando concordò la sfida televisiva.
La domanda più spontanea, e più diretta, di fronte alla sfida che si erano dati davanti alle telecamere Renzi e Di Maio, o viceversa, come preferite, era se il segretario del Pd sarebbe riuscito a recuperare almeno su questo terreno mediatico tutto o in parte il terreno perduto in Sicilia a vantaggio del vecchio Silvio Berlusconi di primo o principale competitore dei grillini. Che, essendo considerati gli anti-sistema, assegnano a chi riesce a contrastarli di più il ruolo di difensori o perno, appunto, del sistema. Il quale, a sua volta, non è solo il panorama malavitoso e perverso dipinto dai pentastellati e da Beppe Grillo in persona, ma è anche il sistema della democrazia parlamentare disegnato dalla Costituzione repubblicana entrata in vigore nel 1948. Cerchiamo di non dimenticarlo, per favore. Come certi scapestrati, a dir poco, negli anni di piombo, da assassini o da pseudo-intellettuali, immaginarono il nostro Stato democratico come una succursale di quello imperialista mondiale, e altre baggianate simili.
I grillini per fortuna non sparano se non pallottole di carta e di fango contro concorrenti e avversarsi. E riescono ancora a scusarsi di qualche eccesso, dopo essersi proposti, per esempio, di bruciare vivo su qualche graticola in piazza il capogruppo del Pd alla Camera Ettore Rosato. Il cui nome tradotto in latino maccheronico viene portato, a torto o a ragione, dalla nuova legge elettorale approvata a larga maggioranza dal Parlamento e promulgata con la firma per niente sofferta del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella.
Il contrasto politico ai grillini, che peraltro con la loro lotta esasperata a tutto e a tutti non sono riusciti né in Sicilia né nella più modesta e lontana periferia litoranea di Roma a ridurre il fenomeno dell’astensionismo elettorale, facendolo anzi aumentare, rimane la priorità di chi vuole difendere e migliorare -ripeto – il sistema, contro chi intende invece abbatterlo.
È sulla consapevolezza di questa realtà che si divide davvero, e trasversalmente, la politica italiana da quasi cinque anni, cioè dall’approdo dei grillini in Parlamento, al di là della partita siciliana che si è appena giocata ed è approdata sulle prime pagine dei giornali con analisi e dichiarazioni costruite peraltro sulla sabbia non di proiezioni, ma di exit poll, cioè di interviste raccolte presso gli elettori all’uscita dai seggi. Che è un altro modo curioso di fare politica, politologia e informazione in Italia.
Sia a destra sia a sinistra c’è chi scambia il grillismo per l’ennesimo giocattolo o diversivo, da potere persino usare per regolare i conti all’interno del proprio schieramento. A destra, per esempio, c’è Matteo Salvini che preferirebbe “telefonare” a Grillo, come ha detto, piuttosto che condividere con Berlusconi un’alleanza con Renzi, dopo le elezioni politiche, per contrastare il movimento 5 stelle. E a sinistra Pier Luigi Bersani ha già provato a fare un governo velleitario “di minoranza e di combattimento” appeso alle invettive di Grillo, piuttosto che promuovere larghe intese per una maggioranza ben definita.