Ci vuole ormai un semaforo nei corridoi o lungo le scale del Senato che portano allo studio del presidente Pietro Grasso. Sul traffico, per fortuna tutto pedonale, vigila curiosamente per la Repubblica di carta, riferendone con la solita puntualità ai lettori, la specialista di affari giudiziari Liana Milella. Eppure Grasso non è più magistrato. Nè sta incontrando in questi giorni suoi ex colleghi di toga. Nè sono sulla sua scrivania in evidenza nuovi disegni di legge sulla tormentatissima amministrazione della giustizia italiana che possano giustificare uno scrupolo a contribuirvi con la competenza della sua lunghissima attività professionale.
No. Il traffico davanti allo studio di Grasso, dopo le sue improvvise e motivate dimissioni dal Pd, che quasi cinque anni lo portò con la regia dell’allora segretario Pier Luigi Bersani prima al Senato e poi al suo vertice, è tutto politico, anzi partitico.
Da Grasso, che Bersani – sempre lui – ha detto di vedere “da Dio” alla guida di una nuova sinistra, intesa come un cartello elettorale antirenziano, per chiamare le cose col loro nome, sono andati in questi giorni, da soli e persino in delegazione, esponenti interessati proprio a quel progetto. Ed anche – va detto – qualche dirigente del Pd, come Gianni Cuperlo, che non si è aggiunto agli scissionisti, ma ne è corteggiatissimo e tentato ogni tanto di seguirli col suo stile mitteleuropeo.
Eppure nell’isola dove gli antirenziani hanno appena sperimentato la loro operazione, che è la Sicilia proprio di Grasso, il risultato è stato fallimentare. L’apporto che essi hanno dato alla candidatura di Claudio Fava a governatore regionale, non ha superato l’uno per cento, che si è aggiunto al cinque che aveva di suo il capo della lista ispirata ai famosi cento passi di Peppino Impastato, fra le proteste dei familiari e degli amici della vittima della mafia, ucciso in un finto tentativo di attentato ferroviario dell’ultrasinistra in Sicilia nello stesso giorno in cui terroristi veri uccidevano a Roma Aldo Moro, dopo quasi due mesi di drammatica prigionia.
Bersani, D’Alema, Gotor e compagni ritengono evidentemente di poter fare meglio e di più a livello nazionale, specie se Grasso dovesse mettersi al volante del loro pulmino e far seguire – si spera – alle dimissioni dal Pd, magari nelle ultime battute della legislatura, quelle da presidente del Senato, e da potenziale presidente supplente della Repubblica e del Consiglio Superiore della Magistratura.
Nel frattempo, in attesa di maturare le decisioni finali, naturalmente sofferte, Grasso sta ripetendo, volente o nolente, la stessa esperienza di Gianfranco Fini nel 2010 alla Camera. Dove l’allora presidente dell’assemblea, rotti tutti i ponti politici e personali col presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e rimasto fermamente al suo posto, incontrava nel proprio ufficio tutti gli oppositori possibili e immaginabili, concordando con alcuni di essi persino una mozione di sfiducia al governo alla vigilia della cosiddetta sessione di bilancio.
Ci volle l’inusuale intervento dell’allora capo dello Stato Giorgio Napolitano, con tanto di vertice istituzionale al Quirinale, per mettere in sicurezza la legge finanziaria facendo calendarizzare solo dopo l’approvazione del bilancio la sfida al governo. Che, contrariamente alle leggende ancora perduranti su una complicità tra Fini e Napolitano, o viceversa, ebbe il tempo necessario per organizzare la sua difesa e battere la insidiosissima mozione di sfiducia.
La crisi e la caduta di Berlusconi sarebbero arrivate dopo quasi un anno, e per effetto non dell’anomalo passaggio all’opposizione di un presidente della Camera rimasto ostinatamente nella sua postazione istituzionale, ma di una crisi economica e finanziaria indipendente dalle presunte o reali capacità manovriere di Fini e amici.
Per fortuna le circostanze di questa fine di legislatura sono assai diverse, politicamente e finanziariamente, da quelle dall’autunno del 2011, quando si concluse l’esperienza governativa di Berlusconi, ma le anticamere di Fini del 2010 e di Grasso in questo autunno 2017 si assomigliano. Forse anche troppo, a scapito in entrambi i casi del ruolo neutrale imposto quanto meno dal galateo istituzionale ai presidenti delle Camere.