Il dibattito che ha accompagnato il voto del referendum consultivo “per l’autonomia” ha di fatto accantonato il progetto di federalismo regionale e quello dell’allargamento delle Regioni a “Statuto Speciale” ma, forse distratto dalle vicende spagnole, non ha ancora rivolto l’attenzione all’unico vero federalismo da realizzare, è quello degli Stati d’Europa a cui gli Stati nazionali dovranno cedere i loro poteri sovrani. Nella costruzione della nuova Europa il rapporto tra l’Italia e la Confederazione, come per tutti gli Stati aderenti alla Ue, non dovrebbe essere molto diverso di quello odierno tra il Wisconsin o la California e il governo degli Stati Uniti. Ma c’è questa consapevolezza?
Dopo la bocciatura del Referendum Costituzionale rimane aperta la questione del titolo V per il sovrapporsi di competenze e di potenziali conflitti tra Stato Regioni a partire dalla realizzazione delle grandi infrastrutture e delle reti strategiche. Se ne occuperà (forse) il prossimo Parlamento che per altro dovrebbe ratificare anche gli accordi che si sottoscriveranno per le autonomie regionali e che inevitabilmente produrranno i loro effetti solo nel 2019. Il grande cantiere della riforma costituzionale rimane sempre aperto anche se ha sospeso i lavori.
L’obiettivo che è stato costruito sui referendum regionali, avallati per altro dalla Corte Costituzionale, mira ad espandere l’autonomia amministrativa attraverso un maggior decentramento di funzioni, nonché di risorse e (si presume) di personale. Se varrà il principio della sussidiarietà, per cui le funzioni che non è necessario svolgere a livello centrale potranno essere affidate al livello locale cui la Regione dovrà garantire, dove possibile, analoghi trasferimenti ai Comuni e, in attesa che se ne definisca il loro destino, alle Province. La vera sfida, come ha osservato lucidamente Piero Bassetti, a cui debbono rispondere le Regioni e gli Enti locali è quella di garantire maggiore efficienza dello Stato e quindi di ricuperare risorse per ridurre il prelievo fiscale locale, per offrire una maggior qualità o quantità dei servizi, o realizzare nuovi investimenti. E questo dovrebbe valere anche per le altre Regioni contribuendo a far crescere una nuova leva di amministratori dotati di qualità politica e capacità professionale. L’obiettivo dell’abbassamento della pressione fiscale dello Stato rimane nella responsabilità del governo centrale. Ma la spending review, se non accompagnata da una forte volontà politica di realizzare riforme adeguate, può fare ben poco.
La realizzazione di una più ampia autonomia gestionale per le Regioni non sarà né semplice né breve. Le materie previste dalla Costituzione interessate sono 23 ma sarebbe opportuno stabilire le priorità nei settori dove la Regione ritiene di ottenere i migliori risultati. Non è stato facile ottenere un’ampia convergenza delle forze politiche regionali, anche perché gli avversari di Maroni sono consapevoli che (e perché non dovrebbe?) il governatore utilizzerà questa vicenda, tanto più se ottenesse un risultato positivo, come biglietto da visita programmatico per la sua rielezione a governatore lombardo. Ogni singola materia in tema d’autonomia è importante ma, come sostiene una vecchia volpe della politica come il presidente di Confcommercio Carluccio Sangalli, recentemente riconfermato presidente della Camera di Commercio della “grande Milano”, la soppressione dell’Irap e l’alleggerimento delle addizionali locali, accompagnate da maggiori risorse per le infrastrutture e per rigenerare l’Hinterland delle città sarebbero risultati di prim’ordine.
Rimane comunque necessaria una riflessione puntuale su un tema realisticamente complesso per cui non esistono soluzioni semplici ma che nello stesso tempo ha una dimensione pragmatica essenziale.
Le aperture del Capo del governo sono incoraggianti ma bisognerà misurarsi anche sui numeri. La trattativa che si avvierà sarà tanto più importante quanto più chiare saranno le richiesta della Lombardia e quanto più rapidamente si concluderà. Sul fronte politico sia i cinque stelle che i Sindaci lombardi del Pd hanno scelto di partecipare al referendum e di votare per “sì”. L’esito positivo della trattativa sarebbe anche il frutto del loro impegno politico che, in particolare, non indebolirebbe la candidatura del sindaco di Bergamo Giorgio Gori, per il quale le maggiori difficoltà in Lombardia vengono da un Pd privo di una forte identità (un problema che si ritrova nelle origine di questo partito ) anche se può disporre di una organizzazione tradizionale (l’unica sopravvissuta) con una presenza diffusa nel territorio. Per di più la possibile coalizione di “centro-sinistra” è tutta da costruire e a tutt’oggi non si esclude una candidatura di “sinistra” come è avvenuto in Sicilia.
La candidatura di Milano ad ospitare la sede dell’Ema, l’Agenzia del Farmaco che lascia Londra dopo la Brexit, ha degli ottimi requisiti, soprattutto se è vero ce l’alternativa è Bratislava, città deliziosa e romantica sulle rive del Danubio, ma difficilmente comparabile con il capoluogo lombardo da ogni punto di vista. La decisione che prenderanno i paesi dell’UE sarà anche inevitabilmente determinata da criteri “politici” e questo costituisce oggettivamente un margine di incertezza non imputabile né a Sala (in foto) né a Maroni. Le istituzioni di Milano e la Lombardia si son mosse unite con determinazione e tempestività e questo va riconosciuto al di là di quello che sarà l’esito finale.
Autonomia regionale ed Ema sono stati sinora due modelli virtuosi di comportamento delle amministrazioni e delle forze politiche e sociali lombarde. La politica divide necessariamente sulle opzioni strategiche ma la buona politica deve saper distinguere le aree di interesse comune e agire di conseguenza. In un contesto politico nazionale che dà preoccupanti segni di sgretolamento, il gioco di squadra della periferia lombarda potrebbe dare un contributo positivo.