Jorge Mario Bergoglio sembra avere un problema americano. Così almeno lo interpretano i principali analisti di vicende vaticane dell’intero spettro ecclesiale. L’ultimo segnale di fatica di uno dei principali episcopati al mondo ad accogliere in pieno l’agenda di Papa Francesco arriva da Baltimora. All’assemblea generale della Conferenza episcopale degli Stati Uniti, i vescovi hanno scelto di non eleggere a presidente del Comitato prolife un cardinale vicino a Bergoglio. Preferendogli un arcivescovo del fronte conservatore. E per farlo hanno persino rotto con la tradizione che per trent’anni ha sempre visto un porporato alla guida delle attività in favore della vita.
I VESCOVI RESISTONO ALL’AGENDA DEL PAPA?
Come aveva sottolineato il Wall Street Journal nei giorni scorsi, il voto era atteso come una sorta di referendum, un test per capire come tirasse l’aria nella gerarchia americana verso le sfide lanciate da Francesco. A elezione avvenuta, il columnist del quotidiano Francis X. Rocca giudica la scelta come un segnale di resistenza dei vescovi all’agenda del Papa. Stizzita la reazione di Michael Sean Winters sul progressista National Catholic Reporter: “I vescovi hanno alzato il dito medio a Francesco”.
IL NO A UN FEDELISSIMO DI BERGOGLIO
Per la presidenza del Comitato erano due i candidati in lizza: l’arcivescovo di Kansas City, Joseph Naumann e il cardinale di Chicago Blase Cupich. Il primo ha battuto 96 a 82 il secondo, un uomo vicinissimo a Bergoglio. Nel 2014, Francesco, ignorando le indicazioni dell’episcopato che aveva suggerito altri nomi, lo ha promosso ad arcivescovo metropolita di Chicago, una delle diocesi più importanti del Paese. Nel 2016 lo aveva poi designato quale membro della Congregazione per i vescovi, facendone di fatto il suo interlocutore per le scelte dei vescovi negli Stati Uniti. Ruolo che per anni era stato ricoperto dal conservatore Raymond Burke. Quindi nel novembre dello stesso anno lo ha ulteriormente premiato, rivestendolo di porpora.
LE POSIZIONI IN CAMPO
Ovviamente sia Naumann che Cupich si oppongono all’aborto. Opposizione che interpretano in maniera differente nello spazio pubblico. Più sociale l’approccio del cardinale, considerato una delle voci più progressiste dell’episcopato. Parteggia per un’etica coerente della vita, includendo nelle istanze prolife insieme all’aborto il contrasto alla pena di morte, e di fatto mettendo sullo stesso piano mali intrinseci e mali sociali, come la lotta alla povertà e al commercio delle armi. Lo scrisse nel 2015: disoccupazione e fame sono altrettanto spaventosi come l’uccisione di milioni di bambini nel ventre. Da vescovo di Spokane invitò i suoi sacerdoti a non prendere parte ai rosari organizzati dalle associazioni prolife fuori dalle cliniche abortiste. Al contrario Naumann ha uno stile più tradizionale, riconducibile alla stagione del culture warrior con la quale Francesco vuole chiudere. Naumann ha ribadito pubblicamente, facendo nomi e cognomi, che i politici che sostengono l’aborto non possono ricevere la comunione. In maggio ha inoltre rotto con un’associazione scout schierata per il diritto all’aborto, escludendola dalle attività parrocchiali. Posizioni che hanno fatto breccia tra i confratelli. Provocando la soddisfazione dei conservatori e l’arrabbiata reazione dei cattolici liberal. Entrambi gli schieramenti già prima del voto dei vescovi su social e riviste online avevano ampiamente fatto campagna elettorale, elencando pregi e virtù, a seconda dei punti di vista, dei due candidati. In campo lo stesso cardinale Timothy Dolan di New York, presidente uscente del Comitato prolife, che intervenendo lunedì ha usato toni di discreto endorsement per Naumann.
COME SI È MOSSO IL PAPA
Francesco aveva dettato la sua linea ai vescovi nel corso della sua visita negli Stati Uniti. Parlando nel settembre 2015 nella cattedrale di Washington aveva chiarito che era tempo di chiuderla con il “fare della croce un vessillo di lotte mondane”. Indicando la “cultura dell’incontro” come strada maestra. Un chiaro fine corsa per i sostenitori del culture warrior tanto caro alla maggioranza della Chiesa statunitense. Per farsi capire meglio si era dato da fare con gli esempi. La promozione di Cupich, anzitutto, nonostante il suo nome non figurasse tra quelli suggeriti dalla Congregazione dei vescovi per la successione a Chicago. Francesco scelse di fare di testa sua, indicando un pastore non eccessivamente amato in patria. Lo dice anche solo il fatto che nel 2013 era riuscito a raggranellare solo pochi voti per la presidenza della Conferenza episcopale. Tant’è. Nel 2016, al suo terzo concistoro Papa Francesco, che nei due precedenti aveva ignorato gli States, dà un altro segnale: impone la berretta a Cupich e ad altri due prelati a lui vicini. Uno, Joseph W. Tobin, è arcivescovo di Indianapolis. Nel 2012 da numero due della romana Congregazione dei religiosi era stato rispedito in patria per avere sostenuto le suore progressiste. L’altro, Kevin J. Farrell, è il primo prefetto del nuovo Dicastero per i laici, la famiglia e la vita. Con quelle berrette, Francesco lasciò fuori promozioni attese, come quella dell’arcivescovo di Philadelphia, Charles Chaput, che un anno prima aveva accolto nella sua diocesi il Papa per l’incontro mondiale delle famiglie, tra i motivi della visita di Francesco negli States del 2015. Un altro prelato rimasto senza porpora fu l’arcivescovo vicino all’Opus Dei, José Horacio Gómez, di Los Angeles. I suoi richiami a favore degli immigrati e contro il muro ai confini col Messico non sono bastati ad assicurargli la berretta.
SCELTE NON IN LINEA. IL PRECEDENTE
Nonostante l’agenda ben fissata dal Papa regnante in parole e nomine, la Chiesa americana ha più volte manifestato i suoi distinguo. Come l’anno scorso, quando ha votato per scegliere presidente e vice della Conferenza episcopale. Come leader, da prassi, fu eletto il numero due uscente, il cardinale Daniel DiNardo, nonostante risultasse tra i firmatari della lettera al Papa durante il Sinodo in cui si manifestavano timori per una conclusione aperturista già confezionata sui temi della famiglia. Lettera che si racconta sia stata mal sopportata da Bergoglio. Più accentuata la scelta del vicepresidente, l’arcivescovo Gómez. Quasi un attestato di stima da parte dei confratelli dopo la mancata promozione a cardinale.
TEOLOGI, CONFUSIONI E SPINTE LIBERAL
Le divisioni all’interno della Chiesa cattolica statunitense non sono solo nelle gerarchie e sono diventate manifeste all’inizio di questo mese, quando a Thomas Weinandy, consulente teologico dei vescovi, sono state chieste le dimissioni per avere scritto e pubblicato una lettera al Papa, critica verso alcune linee del pontificato. A cominciare da quella che il frate cappuccino ha definito una “confusione” creata da Amoris Laetitia, fino alle nomine di certi vescovi che, a suo dire, “sconcertano e scandalizzano i fedeli” per la scelta di “uomini che sostengono e difendono quanti hanno una visione contrapposta alla fede cristiana”. Tra gli altri, sembra di leggere un riferimento proprio a tre fedelissimi di Francesco: i cardinali Cupich, Farrell e Tobin che hanno sposato la linea di James Martin sulla conversione pastorale verso la comunità Lgbt. Il libro firmato da un gesuita di spicco dell’east coast, Building a Bridge, ha scatenato le reazioni dei cattolici Usa e oltre, tra applausi e dure critiche. Da notare che oltre agli appoggi dei tre porporati bergogliani, un segnale di sostegno a Martin è arrivato fin da Roma, dove il padre è stato chiamato da Francesco quale consultore della Segreteria per la comunicazione della Santa Sede.
IL RUGGITO DEL CONSERVATORE
Per l’affaire Weinandy il cardinale DiNardo ha reagito con una insolita dichiarazione per ribadire la fedeltà al Papa dell’intero episcopato. Azione e reazione sono state lette come segno di un problema della Chiesa Usa ad accordarsi alle istanze più profonde del pontificato. A cominciare dalla ricezione di Amoris Laetitia. E forse non a caso da Baltimora i vescovi hanno rilanciato la necessità di un percorso di approfondimento dell’esortazione apostolica sulla famiglia, ribadendone il valore e la ricchezza, così come il collegamento con il magistero precedente. Humanae vitae e condanna della contraccezione in primis. Sottolineatura quest’ultima che fa arricciare il naso ai liberal: loro confidavano nel proseguimento della linea aperturista promossa da un recente convegno al Boston College, al quale sono intervenuti anche i cardinali Farrell e Cupich.
INDEPENDENCE DAY O ANCHE NO
Che a Baltimora si sia consumata una battaglia di indipendenza dell’episcopato Usa dall’agenda Francesco è probabilmente giudizio affrettato. E la vittoria di Naumann, scrive il numero uno dei vaticanisti americani John Allen, non è necessariamente un no all’agenda di Francesco. Del resto, notava un anno fa un altro vaticanista di lungo corso quale Sandro Magister, gli Stati Uniti hanno sempre faticato a sintonizzarsi immediatamente con Roma. Era già accaduto con Giovanni Paolo II, “anche lui promotore nel suo lungo pontificato di un massiccio ricambio dei vescovi statunitensi, che però si manifestò con forza solo durante il regno del successore Benedetto XVI”. Certo a Baltimora, nonostante l’invito all’unità, auspicata domenica dal segretario di Stato, Pietro Parolin, le polarizzazioni non sono mancate. Tanto che, ad esempio, sull’immigrazione si è scelto di non diffondere una dichiarazione congiunta, ma di affidare il compito alla presidenza dell’episcopato, che provvederà nei prossimi giorni.
PARTITA CRUCIALE: CHI INVIARE A ROMA PER IL SINODO 2018
Un ulteriore segnale, poco ricordato in queste ore di commenti sul voto intorno alla presidenza della Commissione per la vita, arriverà dall’elezione dei quattro inviati al Sinodo del prossimo anno. La Conferenza episcopale sceglierà oggi a porte chiuse. Partita cruciale da segnare nel derby delle relazioni interne all’episcopato Usa.