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Nazionale fuori? Fuori anche Tavecchio e Ventura

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Chiedere le dimissioni degli altri è la pratica più facile del mondo: tanto, non le danno mai. Ma nel caso di Carlo Tavecchio e Gian Piero Ventura, i principali artefici della disfatta azzurra, nessuno dovrebbe chiedere niente. Da soli e da sé, il presidente della Federazione Italiana Giuoco (con l’antica “u”) Calcio e l’allenatore della Nazionale, quali essi sono, dovrebbero semplicemente trarre le conclusioni della loro straordinaria impresa in mondovisione. Proprio straordinaria, perché l’Italia non perdeva da sessant’anni la qualifica al Mondiale che si svolge ogni quattro. Invece la Nazionale quattro volte campione del mondo (solo il Brasile ha alzato una coppa in più di noi, e solo la Germania ci è pari), ha appena detto addio ai sogni di gloria e di Russia. Una super-potenza del pallone sconfitta, oltretutto, per mano, anzi, per i piedi di una Nazionale modesta per gioco e per storia come la Svezia senza Ibrahimovic, il suo unico fuoriclasse.

Nell’attesa di ricostruire tutto sulle rovine del calcio italiano, Tavecchio e Ventura hanno un solo dovere: andarsene. E subito. Mollare le loro poltrone d’oro non già perché glielo sollecitino proprio tutti -perfino il presidente del Coni, Malagò, che non è un noto rivoluzionario-, ma perché nella vita, e non solo nello sport, chi sbaglia, paga. E qui non siamo davanti a un errore banale né a una svista piccina, ma a un disastro sportivo ed economico. E’ accaduto quello che non doveva né poteva accadere: i principali responsabili del fallimento non hanno il diritto morale di trattare o di traccheggiare sulla loro permanenza, a prescindere dal diritto contrattuale. Qui il senso civico si antepone al cavillo. Qui il desiderio collettivo che, almeno per una volta, giustizia sia fatta, viene prima di qualsivoglia carta più o meno bollata. È incredibile il solo doverlo spiegare, perché non è poi così difficile da capire.

Lo capì il predecessore di Tavecchio, Giancarlo Abete, che si “dimise irrevocabilmente” con due anni di anticipo rispetto alla scadenza del mandato dopo la pessima figura della Nazionale in Brasile nel 2014 (fu eliminata già nella fase a gironi). E con lui tornò a casa pure Cesare Prandelli, il Ventura dell’epoca. Perché gli onori e gli oneri valgono insieme quando si vince e quando si perde. Figurarsi quando è Caporetto, di cui – destino amaro – ricorrono proprio i cent’anni.

L’Italia di Buffon piange, e noi con lui. Ma non si aggrappa alla cadrega.

(Articolo pubblicato su L’Arena di Verona, Il Giornale di Vicenza e Bresciaoggi e tratti dal sito www.federicoguiglia.com)

 



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