“Un cavallo ! un cavallo! Il mio regno per un cavallo !” (A horse ! a horse ! my kingdom for a horse !). E’ l’implorazione che Shakespeare mette sulle labbra di re Riccardo III d’Inghilterra nell’atto finale dell’omonimo dramma ambientato il 22 Agosto 1485 durante la battaglia di Bosworth allorchè l’ultimo regnante proveniente dalla casata degli York, ignaro del rischio che sta per correre, dopo aver lanciato all’assalto il proprio cavallo dirigendosi, senza sospettarlo, in una zona del campo di battaglia che nasconde un acquitrinio, viene circondato e appiedato dai suoi nemici. Il re viene disarcionato perchè la propria cavalcatura, oramai, incapace di muoversi nel fango è stata colpita a morte (“His horse is slain, and all on foot he fights”). Riccardo III non riuscirà più a sfuggire all’accerchiamento del nemico e morirà anche lui(“the bloody dog is dead”). Il suo corpo ritrovato nel Settembre 2012 durante alcuni scavi per un parcheggio interrato verrà riconosciuto come autentico a seguito di test del Dna e l’annuncio del ritrovamento verrà dato pochi giorni or sono, il 4 Febbraio 2013 da alcuni ricercatori della Università di Leicester.
Recentemente anche la propensione al rischio ha ripreso a galoppare verso terreni infidi, dominata da motivazioni non del tutto razionali al punto, come ci racconta sul Financial Times John Plender (FT fm “Risk taking cheers central bankers, 25 February 2013), che sono stati emessi dal governo colombiano e subito sottoscritti dal mercato 500 milioni di dollari di obbligazioni a 10 anni a tassi di interesse inferiori a quelli degli equivalenti titoli italiani e spagnoli, nonostante la Colombia sia attualmente impegnata in un programma di espropriazioni e nazionalizzazioni di proprietà private. Anche in Belgio (ad opera KBC) e Inghilterra (ad opera Barclays) abbiamo recentemente assistito ad emissioni di titoli per importi superiori al miliardo di euro di prodotti finanziari (contingent capital bonds, anche detti cocos) il cui rimborso è subordinato (ossia viene dopo), in caso di insolvenza totale o parziale dell’emittente, addirittura a quello nominale delle azioni, che per tipologia e tradizione dovrebbero essere i titoli a più alto rischio di mancato rimborso.
Paradossalmente il rifluire di investimenti verso titoli che hanno una più alta componente di rischio non è visto come del tutto negativo da alcune banche centrali che auspicavano da tempo che gli investitori uscissero dal guscio in cui si erano rinchiusi dopo il fallimento della banca di affari Lehman. Ciò sarebbe accettabile se tutte le autorità di controllo dei mercati, almeno nei paesi della Unione Europea, avessero già varato un “single rule book” ossia un codice di comportamento uniforme fra i vari stati per controllare il così detto mercato finanziario ombra e più in generale il comparto degli intermediari finanziari. Ma come ha recentemente spiegato al pubblico con toni preoccupati il Commissario CONSOB Vittorio Conti così ancora non è: (“A livello europeo il Consiglio e la Commissione si stanno impegnando – con l’ausilio tecnico delle tre Autorità europee Esma, Eba, Eiopa di recente costituzione e di quelle esistenti nei singoli paesi – per la progressiva definizione di un “single rule book” che aiuti a superare le differenze ancora presenti tra gli stati membri e che contribuisca a rafforzare il mercato europeo dei capitali e ad accrescerne l’efficienza allocativa, anche al fine di facilitare la canalizzazione del risparmio verso investimenti produttivi a sostegno della crescita.” Da: “La tutela del consumatore-risparmiatore: i contorni di una sfida ancora aperta”, 8 febbraio 2013, Milano).
Questa assenza di regole condivise per controllare e sanzionare comportamenti scorretti può risultare molto pericolosa nel momento stesso in cui le società di private equity “stanno sedute” (come coloritamente afferma ancora John Plender nell’articolo citato del Financial Times) su circa 500 miliardi di $ di capitale sottoscritto a loro favore e dalle stesse richiamabili in ogni momento per essere immessi sul mercato e in aggiunta a queste risorse possono far provvista di liquidità accedendo al credito a tassi di interesse per esse molto contenuti. La stessa situazione caratterizza le imprese non finanziarie che pur disponendo al momento di alta liquidità non stanno facendo investimenti produttivi ma si limitano a effettuare scalate finanziarie o a riacquistare dal mercato azioni proprie (“…there is plenty of cash sitting on corporate balance sheets around the world…. Companies that have access to debt markets are responding to monetary ease not by investing in fixed assets but by doing leveraged deals and there will be many more such deals because stable, cash generative companies will find that private equity firms, which are reckoned to be sitting on around 500 billion $ of callable capital and now have access to cheap credit, are only too keen to do it for them”). Tutto questo è come se si abitasse un villaggio dominato da una montagna che minaccia una gigantesca frana verso valle. E’ forse per questo motivo che la Federal Reserve ha recentemente deciso di ripensare in parte la propria politica di quantitative easing, ossia di acquisto di beni (assets) finanziari dalle banche in cambio di liquidità. La Fed comincia a percepire il pericolo che tale eccesso di liquidità, che tarda a tradursi in significativi investimenti nell’economia reale, potrebbe produrre sul mercato visto che (la liquidità) staziona ancora nelle banche e presso gli intermediari finanziari e questi sono tentati da soluzioni di impiego molto rischiose.