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L’incognita del post-Chávez sulle trattative Colombia-Farc

Pubblichiamo un articolo del dossier “Dopo Chávez: un nuovo capitolo del Sud America” dell’Ispi

A prima vista, sembra l’ennesimo paradosso colombiano, la nazione simbolo del realismo magico. Nelle regioni rurali – inespugnabili fortezze naturali di selva e montagne che nemmeno il pugno di ferro dell’ex presidente Álvaro Uribe è riuscito a far capitolare – la guerra tra l’esercito e le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (Farc), la più longeva guerriglia latinoamericana, si fa ogni giorno più cruenta. L’ultima autobomba dei miliziani è esplosa il 25 febbraio scorso, uccidendo un civile. Eppure, a 2.300 chilometri di distanza, all’Avana, i colloqui di pace tra il governo e il gruppo guerrigliero, cominciati lo scorso ottobre a Oslo, procedono. E – rivela la stampa colombiana – fanno passi avanti. La sesta tornata negoziale si è conclusa il 28 febbraio con l’approvazione di un documento congiunto di cinque pagine sul primo dei cinque punti in agenda: riforma agraria e restituzione delle terre agli sfollati. Non si tratta ancora di un vero e proprio accordo, ma di una bozza preliminare. Se si continuerà di questo passo – dicono fonti locali – già a giugno si potrebbe liquidare questo tema e passare a uno degli altri quattro: partecipazione politica degli ex miliziani, smobilitazione, riparazione per le vittime e fine del traffico di cocaina. Non stupisce, dunque, che le prime dichiarazioni delle due task force di negoziatori siano state positive.

Sia il governo sia la guerriglia, del resto, hanno interesse a mettere fine a un conflitto che va avanti da quasi mezzo secolo. La spesa militare ha assorbito, solo nel 2010, oltre 10 miliardi di dollari, il 3 per cento in più di qualunque altra nazione latinoamericana a parte il Cile. E, per quest’anno, la cifra sarà ulteriormente aumentata a 14 miliardi, il 14 per cento del bilancio. Risorse ingenti che liberate «potrebbero garantire al paese un futuro brillante», come ha da poco affermato Helen Clark, direttore del Programma Onu per lo Sviluppo (Pnud). Le Farc, da parte loro, sono arrivate al tavolo dei colloqui fortemente indebolite da dieci anni di controffensiva statale. Tra il 2002 e il maggio 2009, la guerriglia ha perso 12mila uomini, uccisi dalle forze di sicurezza e altrettanti sono stati catturati. A questi si aggiungono i 17mila che negli ultimi dieci anni hanno scelto volontariamente di lasciare le armi. Alla fine del 2012 le Farc potevano contare su poco più di 9mila miliziani, confinati per lo più nel cuore più inaccessibile del paese: Cauca, Arauca, Nariño, Caquetá e ben lontani dalle periferie urbane dove un tempo erano di casa.

Sospesa come una spada di Damocle sulle teste dei guerriglieri c’è, inoltre, l’enigma della successione al presidente venezuelano Hugo Chávez. Che, negli anni, li aveva prima protetti e poi – man mano che miglioravano le relazioni tra Caracas e Bogotà – spinti verso i colloqui. Non a caso i governi di Venezuela e Cuba figurano – insieme a Cile e Norvegia – come garanti del processo di pace a cui si è arrivati dopo una fitta serie di incontri tra gli emissari delle due parti nell’isola caraibica sotto l’occhio vigile dei “facilitatori” venezuelani. Il caudillo Chávez – riferimento della sinistra radicale bolivariana – è stato sconfitto nella sua “tremenda battaglia contro il cancro” – come l’ha definita il vicepremier e possibile successore, Nicolás Maduro – e nessuno sa ora come potrebbero cambiare gli equilibri regionali. Esiste l’ipotesi che il “bolivarismo” scompaia insieme al suo fondatore. In tal caso, le Farc si troverebbero ancor più isolate politicamente e ad avere meno margini di trattativa. D’altro canto, esiste anche la possibilità opposta. Il nuovo caudillo potrebbe essere tentato dal compiere – per mobilitare la base – un’ulteriore radicalizzazione della sua politica interna e internazionale. Il che potrebbe rafforzare le componenti più oltranziste della guerriglia – da sempre contrarie al dialogo – e far saltare i colloqui. Ecco perché il presidente Juan Manuel Santos ha rivolto un appello al vicepresidente Maduro affinché continui a sostenere i negoziati. In teoria, Maduro ha ribadito il suo impegno: nessuno, però, sa che cosa potrebbe accadere adesso che Chávez ha lasciato per sempre il palazzo di Miraflores . Meglio, dunque – e questo è uno dei pochi punti su cui concordano entrambi i contendenti – fare in fretta, fintanto che il quadro regionale resta stabile.

Se esistono dei fattori concreti, però, che spingono per la pace, altrettanti operano in direzione contraria. La guerra è, infatti, un enorme business che fa comodo a molti, non solo ai gruppi illeciti. L’industria della sicurezza privata è solo uno dei mercati che dipendono dal conflitto. Le stesse Forze Armate hanno mostrato una certa resistenza ad accettare l’apertura delle trattative. La scelta d’includere nell’équipe negoziale l’ex generale Jorque Enrique Mora rientra proprio nella volontà del governo di far accettare all’esercito il processo di pace.

Le Farc, inoltre, a dispetto del loro indebolimento possono ancora contare su molteplici fonti di finanziamento. Al tradizionale traffico di coca, negli ultimi tempi hanno abbinato quello di marijuana e, soprattutto, il controllo delle miniere d’oro. Alle aziende legali – che hanno moltiplicato la loro attività grazie alla politica d’incremento delle concessioni minerarie del governo Santos – la guerriglia estorce la cosiddetta “vacuna”, il “pizzo”. Ancor più considerevoli i guadagni dalle cosiddette cave clandestine, soprattutto d’oro, che in alcune zone sono diventate la maggior fonte di risorse per i miliziani.

I vertici si sono enormemente arricchiti grazie ai traffici illeciti. Sarebbero disposti a rinunciarvi? Si domandano in tanti. E, anche in caso che la leadership lo fosse, questa sarebbe realmente in grado d’imporre la sua decisione ai quadri intermedi? O, come è avvenuto con la smobilitazione dei paramilitari delle Autodefensas Unidas de Colombia , i cosiddetti “pesci piccoli”, addestrati alla guerra, alle armi e al denaro facile, daranno vita a bande criminali autonome, moltiplicando la violenza?

Quest’ultimo quesito rimanda a quello più generale che tormenta analisti e cittadini colombiani. La pace con le Farc implica automaticamente la fine del conflitto? Non si tratta solo della sopravvivenza dell’altra formazione guerrigliera, l’Ejercido de Liberación Nacional (Eln), ma della presenza di una molteplicità di gruppi armati che seminano il terrore nella Colombia rurale. Di nuovo, dunque, si torna al problema della “frattura”. A fronte delle metropoli industrializzate e turistiche, esiste una porzione di paese isolata e selvaggia, in cui lo stato si contende il monopolio della violenza con una serie di formazioni rivali. E, spesso, perde. Ricucire la frattura, promuovere il ritorno pacifico dell’autorità nelle zone più remote non con il controllo militare, ma attraverso la realizzazione di una serie d’infrastrutture e servizi, garantire la giustizia e il rispetto delle regole sono i passi futuri che Bogotà dovrà compiere per trasformare un accordo di carta nell’inizio di un’era di pace.

Lucia Capuzzi è giornalista, lavora nella redazione Esteri di “Avvenire”.



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