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Cyber Warfare: torna il “pericolo giallo”

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Torna il “pericolo giallo”. Dopo oltre un secolo da quando questa formula fu coniata – prima per i cinesi e poi per i giapponesi – la formula sembra poter tornare di moda. Sono ancora i cinesi, con il loro potere economico e militare, ma soprattutto la Corea del Nord, a far paura.

Adesso, a leggere le cronache, a far paura non sono solo i razzi del dittatore di Pyongyang.

Per capirlo occorre fare un passo indietro, a qualche mese fa. Era il 12 maggio. Oltre 100 mila sistemi informatici, sparsi in 105 paesi del mondo, furono resi inutilizzabili da un messaggio ricattatorio: “I tuoi dati saranno perduti per sempre se non paghi un riscatto di 300 dollari”. L’infezione (denominata “wannacry”), una delle più estese della storia, provocò il blocco di istituzioni ed enti, strutture sanitarie e società finanziarie. L’antidoto fu trovato in fretta grazie ad una incredibile – e insperata – vulnerabilità del codice, ma la paura che la minaccia potesse ripetersi (e stavolta in modo inattaccabile) provocò una immediata corsa alle contromisure.

Dietro “Wannacry” molti pensarono che ci fosse una rete di hacker o persino un singolo hacker con l’unico scopo di accumulare in poche ore una facile ricchezza: la prima richiesta di 300 dollari – ovviamente in bitcoin – era in breve raddoppiata. Il bottino potenziale poteva quindi essere di tutto rispetto: 60 milioni di dollari.

Oggi le ultime rivelazioni made in Usa (da prendere con le cautele del caso, visto lo stato dei rapporti tra le due nazioni) indicano proprio nella Corea del Nord la madre di Wannacry.

L’amministrazione Trump lancia questa ennesima accusa per bocca di Thomas Bossert, consigliere di Donald Trump per la sicurezza interna e l’antiterrorismo. L’accusa – spiega in un editoriale sul Wall Street Journal – è basata su “prove” su cui concordano “altri governi e società private”. Bossert non ha usato mezzi termini: Wannacry è stato un attacco “codardo” di cui la Corea del Nord “è direttamente responsabile”. Codardo perché “il virus ha colpito in modo particolarmente duro il sistema sanitario inglese, mettendo vite umane a rischio”. La Corea del Nord, ha insistito Bossert, “continua a minacciare l’America, l’Europa e il resto del mondo non solo con le sue aspirazioni nucleari. Sta usando sempre più i cyberattacchi per alimentare il suo comportamento e causare distruzioni”.

Quanto alla Cina, paese forse seconda solo agli Usa per potenza economica, militare e nucleare, non può stupire la sua attenzione alla guerra ibrida. Per ragioni interne (controllo e censura) e per ragioni esterne (difesa e attacco cibernetico) l’attività sulla rete è sempre stata una priorità del governo di Pechino. Alla guerra cibernetica ha dedicato stanziamenti e forze imponenti. Non tutto è noto, ma ciò che trapela è che la Cina può contare su tre distinte “reti”: unità militari specializzate nella guerra sul web, reparti autorizzati dall’Esercito popolare di liberazione e, per finire, gruppi “spontanei” ufficialmente “civili” impegnati su questo fronte.

Sun Tzu – cioè il massimo stratega cinese insieme a Mao – ha dedicato il suo “Arte della Guerra” ad un solo scopo: vincere. E la massima aspirazione di uno stratega, scriveva, è “vincere senza combattere”. Per riuscirci la Cina – e non solo – ha oggi una nuova arma: la guerra di rete, la cyber warfare. In un’epoca in cui può provocare più vittime e catastrofi un virus informatico che una epidemia influenzale, non è un rischio da poco.


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