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Breve guida agli Stati Uniti d’Europa

Di Lorenzo Pecchi e Gustavo Piga

Il risultato elettorale tedesco, che vede l’indebolimento dei partiti a maggiore vocazione europeista, rende, se qualcuno ci sperava ancora, più difficile il percorso verso una riforma dell’eurozona e dell’Unione in senso federale. La strada era peraltro già abbastanza accidentata a causa del contrasto di visioni tra la Francia e la Germania. In questo articolo spiegheremo perché, allo stato attuale, una soluzione di tipo federale nei termini presentati non sia auspicabile. Indicheremo una possibile alternativa per continuare il progetto europeo e per evitare che l’Europa resti in uno stato di impotenza in balia dei crescenti problemi di sicurezza, degli effetti dei conflitti nelle aree limitrofe e dei flussi migratori. Problemi che, se non correttamente gestiti, creano l’humus per lo sviluppo di movimenti sovranisti e protezionisti.

La posizione della Francia è stata riesposta e ampiamente articolata dal nuovo leader Macron nel recente discorso alla Sorbona. La via indicata è quella di spingere l’acceleratore sul progetto federale. Questo prevede la creazione di un ministro delle Finanze europeo con un ruolo di supervisore delle politiche fiscali dei Paesi e con budget di spesa importante da utilizzare, in una logica di “condivisione del rischio”, su aree colpite da shock specifici di varia natura. Alla Sorbona, Macron ha poi posto l’enfasi su tre aree critiche sulle quali concentrare lo sforzo nei prossimi anni da parte dell’Ue: la sicurezza, la difesa e l’immigrazione. L’idea del ministro delle Finanze europeo è stata proposta da qualche anno anche da Schauble, ma per il tedesco il ruolo del ministro deve essere limitato a una funzione di supervisore dell’area euro. Non sono previste condivisioni di rischi o mutualizzazioni di costi. Si tratta di una differenza decisiva con la posizione di Macron. Ogni comunità politica che si dichiari tale deve prevedere qualche forma condivisa di solidarietà civica che, per sua natura, ha effetti redistributivi tra i membri della comunità. Macron e i francesi, con l’idea di condividere i rischi, vogliono di fatto dare inizio all’Unione politica, alla creazione in nuce dello Stato federale.

I tedeschi non vogliono fare questo passo. Adesso la Merkel, dopo il fallimento della “coalizione Giamaica”, sta tentando di rifare la “grande coalizione”, ma in una posizione di maggiore debolezza. L’ipotesi di una Unione politica non diventa di certo più vicina. Lindner, il leader del Fpd, ha già fatto sapere di opporsi a ogni forma di condivisione del debito o dei rischi sia in forma di Unione bancaria o come budget dell’eurozona. L’unica apertura è per il ministro delle Finanze europeo, solo però nella declinazione di Schauble. La sola opzione oggi sul tavolo è quindi quella di un ministro delle Finanze che andrebbe così a svolgere di fatto le funzioni dell’attuale commissario dell’Economia. Si continuerebbero così a perpetrare politiche basate su rigide regole fiscali (austerity), nonostante l’esperienza degli ultimi anni abbia mostrato tutti i loro limiti e pericoli. Quei Paesi che hanno subìto maggiormente la crisi si sono trovati in una sorta di trappola del debito: la bassa crescita e la bassa inflazione hanno contribuito a tenere alto il loro rapporto del debito e del deficit sul Pil; questo li ha sospinti a seguire politiche di austerità fiscale che, a loro volta, hanno abbassato la crescita e l’inflazione, mantenendo così elevati quei rapporti.

Parallelamente, le banche si sono trovate in una sorta di circolo vizioso dei crediti deteriorati: la bassa crescita e la bassa inflazione hanno peggiorato la posizione dei debitori facendo lievitare le sofferenze delle banche, le quali hanno dovuto contrarre il credito con effetti negativi sulla crescita e quindi sulla qualità del credito. L’alternativa alla politica basata sulle regole della Ue, con o senza la figura del ministro delle Finanze europeo, che sta condannando i Paesi finanziariamente più deboli a una crescita anemica, alla bassa inflazione e a mantenere elevato il rapporto debito/Pil è quella di riacquisire da parte dei singoli Paesi il pieno controllo della propria politica fiscale. Una prospettiva riproposta di recente anche da Berry Eichengreen (The Guardian 11/9/17). Perché possa essere accettata da tutti i membri dell’eurozona, richiede che ciascun Paese sia pronto a ristrutturare il proprio debito se le cose dovessero andare male. In questo modo si recupererebbe, tra l’altro, il principio del “no bailout” su cui era stata costruita originariamente l’Unione monetaria: i Paesi che non sono in grado di ripagare i propri debiti dovranno negoziare con i propri creditori.

Esiste un’ampia letteratura basata sulle esperienze di crisi in America Latina e Asia dell’est (vedi Sims, Mody e Eichengreen) che prescrive per Paesi che hanno abbandonato la flessibilità dei tassi di cambio nel gestire gli shock economici avversi di ricorrere a meccanismi contrattuali di ristrutturazione automatica dei debiti degli Stati simili ai meccanismi dei Coco bond emessi dalle banche. Se ci accetta questa prospettiva, è necessario più che mai disconnettere il rischio sovrano dal sistema bancario dovuto alle vaste giacenze di debito pubblico nazionale detenute da molte banche europee. Questo lo si può facilmente raggiungere attraverso normative che limitino sensibilmente la concentrazione di rischio sovrano nazionale nei portafogli delle banche, imponendo o vincoli quantitativi sulla detenzione o maggiori requisiti di capitale se superate certe soglie di detenzione. Nella proposta francese di riforma dell’Ue, oltre alla creazione di un budget e un ministro delle Finanze europeo, è previsto anche di trasformare il fondo Salva Stati (Esm) nel Fondo monetario europeo (Fme), con il chiaro intento di farlo diventare la controparte principale nelle risoluzioni delle crisi dei Paesi europei, sostituendosi così al Fmi.

Nella prospettiva che suggeriamo, il fondo Salva Stati (o eventualmente il Fme) continuerebbe a svolgere il suo ruolo di supporto verso i Paesi in crisi, ma solo nei casi in cui si trovino in uno stato di crisi di liquidità. In caso di insolvenza, i costi ricadrebbero esclusivamente sui soggetti creditori del Paese in crisi. L’opzione di uscita dall’euro per i Paesi in difficoltà sta riscuotendo sempre meno interesse anche tra gli euroscettici, per la percezione dei costi elevati che comporta e i timori di entrare necessariamente in territori inesplorati. La soluzione, però, non può essere quella di fare forzature con improvvisi balzi in avanti verso lo Stato federale e l’Unione politica come vorrebbe Macron, né tanto meno soluzioni di compromesso come la costituzione di un ministro fantoccio con la funzione di monitorare e sanzionare i Paesi che non seguono le rigide regole fiscali, che significherebbe nient’altro che perpetuare gli errori finora commessi. La creazione di uno Stato federale è un processo necessariamente lungo, come l’esperienza degli Stati Uniti ci insegna. Ogni Stato democratico ha bisogno: a) di una struttura organizzativa per legittimare in senso democratico le scelte collettive e b) un insieme minimo di principi di solidarietà (giustizia) condivisi come strumento di integrazione politica. L’Ue non soddisfa al momento né il punto a) né il punto b).

Oggi le scelte più strategiche della Ue sono fatte da organismi intergovernativi a cui prendono parte capi di governo e ministri, i quali, sotto la pressione delle dinamiche dei mercati, spesso deliberano su importanti temi di politica economica senza aver avuto un mandato specifico da parte dei cittadini europei. Ma se riformare l’architettura delle istituzioni europee per renderle più democratiche è un compito arduo ma fattibile, molto più difficile è quello di costruire un senso di solidarietà condivisa tra i popoli europei. L’avversione a emettere gli eurobond, la resistenza alla creazione di un fondo assicurativo europeo dei depositi bancari, la riluttanza a cooperare nella gestione dei flussi migratori, sono tutti esempi che ci ricordano come sia difficile costruire questa solidarietà. Nel discorso alla Sorbona, Macron propone di creare una “procura europea contro la criminalità e il terrorismo”, un esercito comune “in 10 anni” e “una gestione rigorosa delle frontiere”. Queste politiche possono essere viste come un’offerta di beni pubblici a beneficio di tutti i cittadini europei. Data la natura globale di questi fenomeni, nessun Paese da solo potrebbe offrire questi beni pubblici con la stessa efficacia e validità di un’azione coordinata e comune dell’Europa. In un nostro recente lavoro (vedi Pecchi-Piga-Truppo, Difendere l’Europa, Chiarelettere, 2017) abbiamo mostrato che l’Europa, oggi, si trova ad affrontare una serie di sfide inedite. La frammentazione e lo spostamento del potere verso est, l’emergere della Cina come nuova potenza rivale per l’egemonia mondiale, la ripresa della Guerra fredda con la Russia stanno cambiando le priorità geopolitiche degli Stati Uniti. I Paesi europei non possono più contare sull’ombrello di protezione americano, che hanno utilizzato dal dopoguerra ad oggi.

Nel frattempo, un numero crescente di problemi è emerso come effetto dei conflitti aperti e degli squilibri economici nelle aree limitrofe. Tra questi ci sono i temi della sicurezza e delle pressioni migratorie che sono destinate a perdurare. Questa complessità potrà essere gestita solo da un’Europa forte e coesa. Riteniamo, però, che spingere verso una soluzione federalista con le attuali regole non porterebbe altro che a una maggiore frattura tra i cittadini europei e le istituzioni europee. Queste, infatti, non sarebbero in grado di garantire quella solidarietà civica tra i cittadini che ogni Stato democratico richiede, specialmente in un contesto di crescita economica anemica come quello attuale. Per questo, riteniamo che in questa fase sia importante recuperare una maggiore autonomia fiscale da parte dei singoli Paesi per gestire le asimmetrie economiche esistenti tra i Paesi dell’eurozona. Allo stesso tempo, però, è necessario rafforzare la cooperazione in aree critiche come la sicurezza, la difesa e la gestione dell’immigrazione che solo un’Europa coesa potrà risolvere. È attraverso il successo di queste politiche che possiamo porre le premesse per la costruzione degli Stati Uniti d’Europa



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