La Groenlandia che va al voto guarda al sottosuolo. Le elezioni nell’isola che cinque anni fa con un referendum ottene una maggiore autonomia dalla Danimarca sono osservate con attenzione dalle cancellerie tanto in Europa, quanto in Asia. Le ragioni sono nelle ingenti risorse naturali che i cambiamenti climatici stanno rendendo più accessibili e la cui gestione è sempre più prerogativa del governo locale e non di Copenhagen, da cui l’isola ancora dipende in politica estera e sicurezza, secondo quanto deciso dal voto del 2008.
I ghiacci si ritirano lasciando accesso al ferro, alle terre rare e agli altri metalli di cui è ricco il sottosuolo. Lo sfruttamento delle risorse naturali è considerato il mezzo per rompere la dipendenza dall’ex potenza coloniale danese e mettersi sulla strada verso l’indipendenza. Tutti i partiti sono più o meno favorevoli a usare queste risorse, sebbene non tutti allo stesso livello e tenendo a mente i rischi per l’ambiente e per lo stile di vita tradizionale degli inuit.
La scelta per i 57mila abitanti della Groenlandia sarà tra la sinistra di Kuupik Kleist, oggi al governo, e i socialdemocratici del Siumut, guidati da Aleqa Hammond, che accusano il premier di andare troppo veloce nell’approvazione di nuovi progetti minerari e nelle concessioni alle società straniere. Le licenze per le esplorazioni minerarie hanno toccato quota 150. Un decennio fa erano meno di dieci. Soltanto l’anno scorso, ha riportato la Reuters, sono stati spesi circa 100 milioni di dollari in esplorazioni per risorse sulla terra ferma e 1 miliardi per la ricerca di giacimenti in mare.
Lo spauracchio è quello dell’arrivo dei cinesi. Nel dibattito politico tiene banco il progetto da 2,3 miliardi di dollari della britannica London Mining, per lo sfruttamento di una miniera di minerali ferrosi 160 chilometri a nordest della capitale Nuuk. Nel progetto dovrebbero rientrare anche capitali d’oltre Muraglia, accompagnati dall’arrivo di manodopera cinese. Si parla di 2.000, forse 3.000, lavoratori, pari a circa il quattro per cento dell’intera popolazione dell’isola.
Sempre dall’oriente, questa volta dalla Corea del Sud, potrebbero arrivare i potenziali investitori dell’australiana Greenland Minerals and Energy per lo sfruttamento di giacimenti di terre rare nel sud dell’isola, a Narsaq. Per la società, secondo quanto ha riferito l’Associated Press, si tratta del più grande deposito di questi elementi fuori dal territorio cinese. Le terre rare sono indispensabili per i prodotti ad alta tecnologia e Pechino è di fatto monopolista stabilendone i prezzi con le proprie politiche.
Lo scorso dicembre fu invece l’agenzia sudcoreana Yonhap a riportare il resoconto dell’incontro a Seul tra Kleist e l’allora presidente Lee Myung-bak, che diede seguito al memorandum d’intesa siglato tre mesi prima per la cooperazione nello sviluppo dell’Artico.
La regione sta diventando uno dei nuovi centri d’interesse globale, non soltanto per le ricchezze del sottosuolo, ma anche per l’apertura di nuove rotte a Nord. Per questo Stati che per ragioni geografiche hanno poco a che fare con l’area puntano a diventare, o sono già diventati, osservatori permanenti del Consiglio Artico, l’organizzazione che regola la gestione, la salvaguardia e lo sfruttamento delle regioni del Nord. Nel primo caso la Cina, Singapore, la Corea del Sud, l’Italia. Nell’elenco degli Stati già ammessi compaiono invece nazioni mediterranee come Francia e Spagna.
Dalla corsa alle risorse dell’isola verde non vogliono restare fuori né l’Unione europea con cui il governo di Nuuk ha firmato un memorandum lo scorso anno né gli Stati Uniti, con l’Alcoa che ha allo studio una fonderia di alluminio a nord della capitale.
I sondaggi danno i due candidati vicini. L’Inuit Ataqatigiit i Kleist è il primo partito, ma i suoi alleato hanno perso consensi. Spetta agli isolani decidere con un occhio al portafogli e l’altro alla tutela dell’ambiente e del loro stile di vita.