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Sulla Rai, la disputa fra Corriere e Repubblica. In ballo il tesoro della pubblicità

Rai

Il diavolo, si sa, si nasconde nei dettagli. Il futuro della Rai e del rapporto fra canone e tetti pubblicitari appassiona più gli addetti ai lavori che gli italiani, che pure non amano il balzello televisivo e ancor meno il fatto di pagarlo in bolletta. Nella proposta di Renzi c’è certamente l’idea di rincorrere l’elettorato ma questa spiegazione potrebbe essere insufficiente a spiegare il clamore che è seguito alla indiscrezione pubblicata da Repubblica.

Proviamo a riavvolgere il nastro. Senza andare troppo lontano, partiamo dall’11 dicembre. Sul Corriere della Sera spunta, con massima visibilità, una intervista a Pier Silvio Berlusconi. Il numero uno di Mediaset parlerà della sua azienda, delle strategie di Cologno Monzese? Certo che no. Tutta la conversazione con il giornale di via Solferino ruota attorno alla Rai ed al fatto che il tetto pubblicitario di viale Mazzini è troppo alto. “La Rai – ha detto – è l’unico caso di un ibrido che vive di canone e di pubblicità”. Ergo: la tv pubblica si tenga il canone e lasci il mercato degli spot al privato. Vale a dire Mediaset stessa ma anche le altre emittenti, inclusa La7 di cui è proprietario lo stesso Cairo che edita il Corriere che intervista Berlusconi junior.

Ecco quindi che la risposta, di segno opposto (via il canone, via il tetto) arriva dalle colonne di Repubblica attraverso il capo del Pd a sua volta non proprio entusiasta – eufemismo – del trattamento che gli viene riservato dal quotidiano milanese. A riprova del fatto che la proposta renziana abbia ragioni industriali più che strettamente politiche lo spiega lo stesso giornale della famiglia di Carlo De Benedetti con un corsivo di Claudio Tito, firma autorevole e certamente non distante dall’editore. “Forza Italia – spiega – non può fare a meno di difendere il suo leader e soprattutto le sue aziende. Sa che un mercato televisivo senza tetti pubblicitari diventerebbe ingestibile per Mediaset”. Ecco qua il punto. Dietro il riemergere della “questione irrisolta del conflitto di interessi” (sempre Tito su Rep) c’è il riferimento esplicito alla pubblicità. Il vero bottino conteso.

Si tratta per la verità di una battaglia che diventa ogni giorno meno importante perchè in realtà viale Mazzini ha in questi mesi perso moltissimo della sua quota di mercato. Nei primi dieci mesi del 2017 Rai Pubblicità ha raccolto 598,892 milioni di euro contro il 658,916 dell’anno precedente. Un calo di 60 milioni che secondo alcuni esperti potrebbe avvicinarsi al record di meno 100. Non sono lontani i tempi in cui Rai totalizzava oltre il miliardo di euro. La stessa Mediaset registra un calo assai minore (la metà, meno 30) e nello stesso periodo gennaio/ottobre 2017 segna comunque un valore di oltre un miliardo e 700 milioni. Benché la direzione di Rai Uno di Angelo Teodoli stia segnando progressi, tutta la programmazione costruita da Campo Dall’Orto e dai suoi uomini non sta aiutando la crescita dell’audience, anzi. C’è anzi da aggiungere che la crisi del servizio pubblico è reso ancora più grave dal fatto che Rai Pubblicità si ritrova da giorni senza guida. L’amministatore delegato, Fabrizio Piscopo, ha infatti lasciato ed il cda di viale Mazzini non ha ancora individuato il sostituto.

L’impressione è che quello che fu il grande transatlantico televisivo della prima repubblica sia oggi una barca senza timoniere preda dell’assalto dei pirati. Così, forse, si spiega meglio la grande baruffa dei giornali di carta sulle spoglie della Rai e della sua pubblicità.


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