LA WEB TAX È UNA NUOVA TASSA
La web tax non è una semplice ridefinizione della “stabile organizzazione” – che identifica chi effettivamente sta facendo un business in Italia – come sostenuto dal presidente della commissione Bilancio Boccia. La norma istituisce una nuova imposta pari a 3% sull’imponibile per ogni transazione di servizio elettronico b2b, superate le 3000 unità annuali. L’imposta vale a prescindere dalla residenza dell’azienda. Si tratta di una tassa nuova che graverà solo sulle aziende che offrono servizi digitali, andando dunque a colpire un settore ben preciso, di cui l’Italia è già carente e che si condanna cosi alla stagnazione. Come ha detto il Professor Colajanni: “Nel passaggio dal mondo industriale a quello digitale l’Italia è stata letteralmente travolta. Siamo al 25esimo posto su 28 in Europa”. Non è un’iperbole: i margini sui servizi digitali sono bassissimi, essendo un mercato che si basa sulla diffusione di scala. Ed è per questo che il limite inserito da Boccia per tutelare le startup o Pmi italiane – le 3000 transazioni – suona come una beffa: bastano 3000 transazioni da un euro per diventare un tanto temuto “gigante del web”?
LA MANCANZA DI UN DIBATTITO SERIO
La web tax all’italiana non è stata discussa adeguatamente, tant’è che continua a essere fraintesa. Per esempio, non ha nulla a che fare con il forzare aziende straniere a pagare le tasse in Italia, come molti hanno confuso. La possibilità di vendere i servizi in Italia da un’altro paese Ue, magari con una tassazione più bassa come l’Irlanda, è garantita dalle normative europee. Quando un’azienda forza la mano “eludendo” soldi dovuti allo Stato si aprono contenziosi che, come ha ricordato lo stesso Boccia, sono stati risolti più volte dalle autorità per centinaia di milioni di euro. Ma quindi se un sistema di controlli già c’è e se l’Ue è considerata l’ente internazionale più attenta al mondo su temi di tassazione e concorrenza, perché questa fuga solitaria del nostro Parlamento? Perché non concertare un sistema coerente con il resto dei partner europei? Perché doversi ridurre a sperare che la norma venga bloccata dall’Ue o che qualcuno la impugni davanti a un tribunale prima che entri in vigore? E perché infine, se l’intenzione è colpire per qualche insano principio le aziende straniere, si esonera l’e-commerce, dominato da un gigante come Amazon?
L’ASSALTO ALLA DILIGENZA A COLPI DI EMENDAMENTO
Il tema del lobbying è riemerso con prepotenza in questo nostro dibattito. Se la manovra di bilancio seguisse un iter normale e non fosse invece l’assalto alla diligenza che è stato con sedute alle 4 di notte e norme nascoste tanto da sfuggire ai controlli degli stessi parlamentari e dei ministeri, non esisterebbero lobbisti. Dunque prima ancora dei lobbisti il problema è forse il nostro parlamento e la sua mancanza di trasparenza, che purtroppo permette ad alcuni rappresentati di portare avanti interessi privati senza scrupoli. Non, sia chiaro, la legittima rappresentanza di interessi da parte di aziende private, che bisognerebbe anzi cominciare a coinvolgere proattivamente. Ma una dinamica di poteri, appoggi politici ed economici occultati. Nel caso della web tax i primi e più ardenti sostenitori della stessa sono, da anni, gli editori della carta stampata, che a causa di internet hanno visto ridursi le vendite di pubblicità e le copie dei giornali.
TRADIRE L’INNOVAZIONE
Non risulta comunque errato solo il merito ma anche il principio: nel 2017 proporre una tassa extra su un servizio in quanto digitale vuol dire perdere la sfida all’innovazione. Sfida di fronte alla quale il parlamentare italiano e il partito di governo hanno capitolato. Un partito che ha governato per 5 anni come il Pd può ammettere a Formiche.net, nella persona del responsabile innovazione Boccadutri, di non aver trovato alcuno spazio per opporsi alla nuova imposta (quando poi di web tax si parla da anni)? Viene da chiedersi cosa abbia effettivamente rappresentato per il Governo e per il Pd l’impegno al digitale, alla modernizzazione, al cambio di modo di fare tanto sbandierato, se poi si chiude la legislatura con una legge di bilancio sbagliata, poi ricorretta, dove ogni giorno si scoprono nuove sorprese. Se neanche uno dei problemi che bloccano in Italia i mercati più radicalmente progrediti nel resto del mondo – i trasporti con Uber e il turismo con Airbnb – è stato risolto come promesso dai rispettivi ministri. Se alle visite messianiche di Matteo Renzi in Silicon Valley è seguita la tassa sul digitale. È chiaro oggi che la scelta finale è stata la solita, fallimentare forma di statico malgoverno ed extra tassazione, ricetta che ha già spedito l’Italia in fondo alla classifica dei Paesi per investimenti. Una cosa è certa: neanche la prossima Google nascerà in questo stanco Paese.