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Se fosse Trump a temere una guerra commerciale?

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Le cronache che giungono da Davos mostrano un presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, molto più moderato, in materia di commercio internazionale, di quanto non fosse in campagna elettorale – quando ha formulato la dottrina America First – e di quanto non apparisse dalle misure prese nei giorni scorsi.

Vale la pena ricordare che, il 22 gennaio, un decreto presidenziale ha imposto dazi elevati nei confronti di importazioni di lavatrici. A Washington, sono in cantiere misure restrittive nei confronti di siderurgia, alluminio, pannelli solari e una lunga lista di altri prodotti. Il deprezzamento del dollaro è parte di una strategia per respingere le importazioni negli Usa e stimolare, invece, l’export del made in Usa.

Cosa spiega il tono differente assunto al World Economic Forum? Non dipende certo dal contesto, ossia dall’essere tra i “grandi” dell’economia e della politica. Anzi, entrato in politica al termine di una carriera in industria immobiliare e finanza, non si è certamente sentito spaesato tra industriali e finanzieri tra i maggiori del mondo.

La determinante è, a mio avviso, differente. Ha metabolizzato, o gli è stato fatto notare, che le parole forti in tema di scambi commerciali, dazi e tariffe possono essere utili a trovare voti in Stati dell’Unione dove ci sono industrie poco competitive e alta disoccupazione, ma che da una guerra commerciale gli Usa rischiano di uscire perdenti. Non solo a ragione delle misure di ritorsione che applicherebbero altri Stati e che, nelle circostanze, verrebbero probabilmente approvate dall’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nella sua funzione giurisdizionale, ma perché gli Usa rischiano l’isolamento in un mondo in cui la libertà degli scambi è vincente.

Non sono in corso negoziati multilaterali sugli scambi in seno all’Omc (come i vari rounds che si sono succeduti dalla fine della Seconda guerra mondiale), ma ci sono ben trentacinque importanti trattative o bilaterali o regionali per ridurre quel che resta dai dazi, liberalizzare le barriere non tariffarie agli scambi, eliminare gli ultimi contingenti quantitativi.

Il mondo si muove anche senza di noi, ha scritto Phil Levy del Chicago Council on Global Affairs, repubblicano da sempre e a lungo consigliere di George W. Bush per la politica economica internazionale.

Alla Casa Bianca – si dice a Washington – si comincia a temere l’isolamento commerciale degli Stati Uniti, anche e soprattutto in quanto una parte importante della business community americana teme ripercussioni negative sui propri conti economici. Numerosi industriali e finanzieri americani hanno guardato con preoccupazione l’accordo del luglio scorso tra Unione Europea e Giappone, chiamato dal premier nipponico Shinzo Abe come “la bandiera del libero mercato mentre imperversano tendenze protezionistiche”. Un messaggio chiaro ed eloquente.


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