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Erdogan arriva a Roma ma la Turchia dove vuole andare? L’analisi di Magri e Talbot (Ispi)

Di Paolo Magri e Valeria Talbot
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Dove sta andando la Turchia è un interrogativo che sempre più spesso negli ultimi anni è emerso di fronte alle scelte di politica estera di un Paese all’intersezione tra Europa e Asia, membro dell’Alleanza atlantica, con uno sguardo sempre più intenso verso la Russia e il continente eurasiatico e una ambizione irrealizzata di leadership regionale.

Da quando il Partito della giustizia e dello sviluppo (Akp) è al potere (2002), la politica estera della Turchia è diventata più attiva, assertiva e multidimensionale rispetto al passato, partendo proprio dal vicinato mediorientale, dal Caucaso e dai Balcani per estendersi fino al continente africano e oltre. La ricerca di nuovi mercati per un’economia sempre più orientata alle esportazioni ha avuto un ruolo non secondario nella proiezione esterna della Turchia, che ha fatto del suo soft power uno dei principali strumenti di penetrazione. In questi quindici anni la politica turca ha attraversato fasi diverse che si possono riassumere nella parabola di un Paese che da potenza regionale emergente e “modello” per i regimi arabi in transizione sull’onda delle Primavere del 2011, si è poi trovato in un difficile isolamento.

Senza dubbio la crisi siriana, il progressivo deterioramento degli equilibri mediorientali, la creazione dello Stato islamico – tutto ciò accompagnato da scelte di politica regionale poco accorte – hanno segnato un punto di svolta, impattando negativamente sulla proiezione e sulla percezione esterna di Ankara. Tuttavia, anche al suo interno la Turchia ha pagato a caro prezzo le ricadute di questi cambiamenti, che hanno segnato il passaggio dal soft power a un approccio sempre più marcatamente securitario, tanto in politica estera quanto all’interno.

Per uscire dall’isolamento regionale, la Turchia ha guardato in primis alla Russia. Se la scelta è sembrata obbligata visto il ruolo di Mosca nel conflitto siriano, il calcolo di Ankara è stato dettato anche da importanti interessi strategici, economici ed energetici, nonché da un’affinità di vedute sulla gestione del potere tra il presidente Erdogan e il suo omologo russo. Proprio Putin è stato il primo capo di Stato a esprimere solidarietà e sostegno alla Turchia all’indomani del fallito golpe di luglio 2016, accelerando così un processo di riavvicinamento, già in atto, per mettere fine al gelo nelle relazioni bilaterali causato dall’abbattimento di un jet militare russo da parte turca.

Il recente accordo sulla fornitura di missili russi terra-aria S-400 alla Turchia sembra imprimere un passo ulteriore a questo processo, tra i timori dei tradizionali alleati occidentali di uno scivolamento di Ankara nella sfera di influenza russa. Sebbene non sia la prima volta che le mosse turche alimentano interrogativi sulla sua “fedeltà” alla comunità euroatlantica, in questo caso le preoccupazioni giungono in una fase di forti tensioni, tanto con gli Stati Uniti quanto con l’Europa, e diffidenze reciproche che si protraggono da oltre un anno e mezzo.

Se l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca sembrava poter ridare nuova linfa ai rapporti con Washington, le aspettative sono state disattese in quanto la nuova amministrazione ha adottato una linea di continuità rispetto alla precedente sui due dossier più critici per la Turchia. Gli Stati Uniti infatti hanno continuato a sostenere militarmente e finanziariamente, nonostante i moniti e le proteste di Ankara, le forze curdo-siriane impegnate sul terreno nella lotta allo Stato islamico. Inoltre, non hanno ancora accolto la richiesta turca di estradizione di Fetullah Gulen, il potente predicatore islamico considerato il responsabile del tentativo di colpo di Stato in cui il governo turco lamenta una complicità americana. Sul versante dei rapporti con l’Europa, la prospettiva dell’adesione all’Unione europea sembra ormai del tutto tramontata, sebbene formalmente il processo negoziale rimanga ancora in piedi.

Alle luci dell’allontanamento del Paese dagli standard europei in materia di democrazia, Stato di diritto, rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche e civili, oggi neanche i più convinti sostenitori della vocazione europea della Turchia scommetterebbero sulla carta dell’adesione. Del resto, anche in Turchia prevale da tempo, a causa dell’atteggiamento ondivago dell’Europa, ma anche di una montante retorica anti-occidentale della leadership turca, una profonda disaffezione per l’obiettivo europeo. Al di là dell’adesione, si tratta dunque di ridefinire le relazioni con l’Ue su un altro livello e di appianare le divergenze con alcuni Stati membri, in primis la Germania. In quest’ottica sembra inserirsi il viaggio di Erdogan a Parigi e la visita del ministro degli Esteri Cavusoglu in Germania. La Turchia è consapevole che cruciali interessi economici, energetici e di sicurezza la tengono ancorata all’Europa, tuttavia non sembra precludersi la possibilità di guardare altrove e di cercare nuove partnership e opportunità di cooperazione.



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