Il sedici marzo ricorre il 35° anniversario del rapimento di Aldo Moro e dell’assassinio della sua scorta. In questi giorni difficili non è mancato chi ha voluto avanzare paragoni tra le condizioni attuali e quella tremenda stagione della Repubblica: crisi economica, esasperazione sociale, esiti elettorali (1976, con il quasi pareggio tra DC e PCI e i governi della “non sfiducia”) che spaccavano in due il paese (oggi in tre). Eppure le risorse della politica, che poteva contare su partiti di massa ancora fortemente insediati nel corpo della nazione, costruirono quella risposta popolare che segnò l’inizio della fine del terrorismo. Oggi non è più così: la politica sembra aver smarrito il suo senso profondo e, soprattutto, la sua qualità.
Tornare alle fonti della Costituzione, allora, può rappresentare un esercizio utile, anche a beneficio dei nuovi arrivati che, con una iconoclastia leggera e inconsapevole, dicono di volerla prendere a colpi d’accetta, a cominciare dalla norma fondamentale su cui si basa la democrazia parlamentare moderna: quell’art. 67 che fa ogni parlamentare libero dal mandato imperativo. Rileggere, poi, alcune tra le pagine migliori dell’Assemblea Costituente attraverso gli interventi del ventinovenne Aldo Moro e dei suoi più prossimi (per cultura e militanza politica) sodali impegnati con lui nell’impresa storica della nuova Costituzione, significa concedersi una boccata d’ossigeno che aiuta a comprendere la nobiltà della politica e la dignità del Legislatore. Almeno quando porta il nome, appunto, di Moro, Dossetti, Mortati.
Abbiamo raccolto in una monografia (“Pluralismo e personalismo nella Costituzione italiana. Il contributo di Aldo Moro”, edita da Cacucci, Bari) gli interventi del giovane costituente pugliese nella storica assemblea.
Il giovane Moro, già vice-presidente nazionale della FUCI, professore a Bari di Diritto Penale e di Filosofia del Diritto, spazia con i suoi interventi dai temi dell’anteriorità della persona umana rispetto allo Stato, a quelli della solidarietà, della forma del nuovo ordinamento giuridico, alla scuola e alla famiglia, del nuovo profilo delle libertà democratiche, alla forma partito, dai Patti Lateranensi al diritto dell’informazione, dal diritto al lavoro a quello di proprietà, dal diritto internazionale a quello di “resistenza” che non entrò in Costituzione, portando nel dibattito la cifra originale di una sensibilità laica, ancorché irradiata da una salda ispirazione cristiana.
Numerosi sono gli interventi di Moro capaci di “restare” anche nel dibattito contemporaneo: tra i molti ci pare segnato da una straordinaria attualità quello del 22 maggio 1947 in Assemblea plenaria, intorno alla forma democratica del partito politico, quando, intervenendo a sostegno di un emendamento di Mortati che tende ad inserire in Costituzione il principio del “metodo democratico” nell’organizzazione interna del partito politico, ricorda che “se non vi è una base di democrazia interna, i partiti non potrebbero trasfondere indirizzo democratico nell’ambito della vita politica del Paese”. L’emendamento, com’è noto, non venne approvato. E il Paese attende da 65 anni una regolamentazione giuridica del partito che forse avrebbe evitato l’insulto dei “partiti personali” e delle suggestioni autoritarie nascoste dalla effimera mitologia dell’agorà telematica.
Pino Pisicchio
Deputato di Centro Democratico