La visita di Erdogan in Vaticano è uno di quei fatti destinati a far discutere. Quale sarà il vero approccio strategico di Francesco, al di là dei comunicati ufficiali, è difficile da dire. Si può però comprendere quale sia il background di conoscenza del dossier Turchia da parte della Segreteria di Stato andando a rileggere un intervento pubblicato dal gesuita Padre Giovanni Sale su La Civiltà Cattolica a gennaio dello scorso anno. Come si può leggere nell’abstract rilanciato non a caso sui social in queste ore, l’analisi è rigorosa e individua nella relazione con i curdi e nel complicato scenario geopolitico le ragioni di un cambio strategico della presidenza Erdogan. Ecco cosa scriveva Civiltà Cattolica (tutt’ora considerazioni valide).
Fino alla rivolta di Gezi Parki, del maggio 2013, la Turchia era considerata in Europa l’unico Paese islamico realmente democratico. Secondo alcuni il modo violento con cui è stata domata la sollevazione e l’indisponibilità del Governo ad ascoltare le ragioni dei rivoltosi, sostenuti da ampi settori del mondo giovanile e dagli intellettuali, sembrano dare ragione a quelli che da alcuni anni andavano ripetendo che il regime erdoganiano stava scivolando verso forme di autoritarismo non più tollerabili.
Il leader turco ha certamente della democrazia un’idea personale, che difficilmente si concilia con la cultura politica dell’Europa. Nel 1996, quando era ancora sindaco di Istanbul, Erdoğan disse che la «democrazia è come un autobus, si va fin dove si deve andare e poi si scende»: il che è il contrario di ciò che noi intendiamo per «democrazia valoriale».
In ogni caso, ancora oggi il potere di Erdoğan poggia su un ampio consenso popolare e politico, nonché sulla maggioranza parlamentare che, per quanto grande, non è però sufficiente per assicurargli, come egli vorrebbe, un cambio di regime in senso pienamente presidenziale.
Eppure il 15 luglio del 2016 ha rischiato di essere «detronizzato» da un golpe condotto in modo maldestro da alcuni settori dell’esercito. Su di esso rimangono ancora aperti molti interrogativi sia riguardo ai mandanti sia riguardo alle modalità con cui si è svolto.
Per il Presidente e per altri uomini del Governo in carica, non c’è dubbio che il vero mandante del colpo di Stato sia stato l’imam Fethullah Gülen, antico amico e oggi nemico giurato di Erdoğan, da quando il cosiddetto «Stato profondo», formato dai quadri gulenisti, fece resistenza alle ambizioni neo-sultaniali del Presidente. Così, a partire dal 2012, l’accordo tra i due leader si tramutò in aperta opposizione.
In realtà, per la Turchia il problema curdo è certamente quello più difficile da risolvere. Con la guerra siro-irachena, esso è diventato ancora più insidioso per la cosiddetta «sicurezza nazionale». Naturalmente la prospettiva della nascita di uno Stato curdo ai confini della Turchia, una volta cessato il conflitto, è del tutto contrastata da Erdoğan, per le ripercussioni interne (sul piano della sicurezza) che essa potrebbe avere.
In quest’ottica, vale la pena ricordare che negli ultimi tempi i rapporti tra la Turchia e gli Stati Uniti, che Ankara, in quanto membro della Nato, ha da sempre considerato come suo alleato naturale, si sono deteriorati, così come i suoi rapporti con l’Ue. Mentre si registra un nuovo allineamento strategico con la Russia di Putin. Su questa linea, secondo alcuni analisti, Ankara avrebbe ottenuto da Mosca il permesso «di intervenire in Siria per arginare l’influenza curda, accettando però di non opporre resistenza alla presa di Aleppo».
Ma gli equilibri sembrano precari e si deve supporre che la liberazione di Mosul, come anche la riconquista di Aleppo, non riporteranno, purtroppo, la pace in quella regione martoriata, ma probabilmente daranno origine ad altri conflitti tra le forze che hanno partecipato alla battaglia finale.