Con la conclusione della XVII legislatura repubblicana si è ufficialmente aperta una campagna elettorale particolarmente incerta in cui, al momento, non sembra aver ancora trovato posto una discussione articolata sullo stato ed il ruolo della pubblica amministrazione e, in particolare, della dirigenza pubblica. Non appaia insolito: Governo e Parlamento sono stati a lungo impegnati nella faticosa elaborazione dell’ambiziosa riforma della PA intestata alla ministra Madia, con l’adozione della legge 124 del 2015 e la messe di conseguenti decreti attuativi. Se, tuttavia, si centra l’attenzione su quel che a ragione può essere definito il motore della macchina pubblica, ovvero la dirigenza, sarebbe utile che la politica che verrà non si dimentichi della questione. L’intervento sulla dirigenza, azzerato dalla Corte costituzionale per effetto della sentenza n. 251 del 2016, rappresentava, infatti, uno dei pilastri del disegno certamente più ampio dell’operazione a cuore aperto sulla PA. Lo stop della Consulta, evitando seri rischi per l’imparzialità dell’azione amministrativa e l’autonomia della dirigenza stessa, ha, tuttavia, fatto saltare l’opportunità di attualizzare il quadro normativo. L’assoluto protagonismo della figura del dirigente, infatti, nel rapporto con la politica, nel funzionamento dei sistemi di performance, trasparenza e lotta alla corruzione – la cui complessità sta debordando nella concreta ingestibilità – e nel dispiegarsi di una reale semplificazione dei processi, rende evidente l’importanza di alcuni nodi da sciogliere che si crede opportuno siano parte della comune cultura in fatto di burocrazie e che hanno carattere prodromico ad ogni futuro intervento.
Il primo è certamente quello relativo al recupero della serenità della discussione che, nel corso degli ultimi anni, ha visto muovere contro i dirigenti pubblici accuse ed asprezze irricevibili che hanno gravemente danneggiato i rapporti all’interno della cosa pubblica e, cosa assai più grave, invelenito il clima sociale. Riconoscere il ruolo indispensabile della dirigenza pubblica e dei lavoratori pubblici in generale è elemento indefettibile se si vuol compiere una analisi seria e di lungo respiro dei problemi delle amministrazioni e della dirigenza in Italia, che sono molti e complessi da aggredire. La narrazione della riforma della dirigenza, incentrata sull’assalto ai privilegi ed all’inefficienza dei dirigenti pubblici di questo Paese (i “burocrati che remano contro”), condotta con fare arrembante e senza distinguo alcuno, è stato un infelice esempio di tale approccio da accantonare. Recenti prese di posizione sul primo giornale Italiano hanno sostanzialmente identificato le burocrazie come gruppi di golpisti: “Le burocrazie, amministrative e giudiziarie, spadroneggiano. I politici o sono al loro servizio o sono troppo deboli per tenerle a bada. Lasciate a se stesse quelle burocrazie ci preparano un futuro di autarchia e di declino economico e culturale”. Un’atmosfera pre-elettorale plumbea, purtroppo, che non fa ben sperare. Sia chiaro: non che non esistano burocrati e dirigenti inefficienti o inadatti. Ottusi, persino. Ma è la cattiva burocrazia l’avversario da sottomettere, non la burocrazia tout court.
Il secondo riguarda le modalità di reclutamento della dirigenza. L’estrema frammentarietà dei sistemi di selezione della dirigenza pubblica in Italia ha fatto sì che essa, diversamente da prefetti, diplomatici e magistrati (non casualmente la parte ancora non privatizzata del personale pubblico), non abbia saputo dar prova della propria natura di corpo dello Stato, troppo spesso incapace di scrollarsi di dosso un alto grado di autoreferenzialità e di mantenere un corretto rapporto di sana alterità con la politica. Superare l’attuale doppio accesso alla dirigenza, incanalando finalmente l’intero flusso di richiedenti per il tramite della Scuola Nazionale di Amministrazione, costituirebbe una delle leve determinanti per infliggere un colpo mortale al vizio del “particulare” che tanti danni ha fatto alla PA in Italia, magari prevedendo congrui periodi di stage per i neo-dirigenti (almeno un anno) e di servizio obbligatorio all’estero per tutti. Il recupero ed il rilancio dell’esperimento del corso-concorso per la carriera dirigenziale, mai veramente decollato, con gli opportuni correttivi per chi entri per la prima volta nella PA, per chi è già funzionario e per chi acceda a seguito di esperienze nel settore privato, rappresenta senza dubbio una leva per contribuire a (ri)fondare quello spirito di corpo che drammaticamente latita.
L’ultimo elemento investe, infine, natura e ratio della dirigenza stessa. Dopo decenni di ubriacatura neoaziendalista e di superfetazioni di concetti e modalità organizzative trapiantate direttamente nel tessuto molle delle amministrazioni, qualche segnale di ritorno alla peculiarità della funzione pubblica sembra oggi cogliersi, riaggiornandola con le esigenze proprie di una società italiana (e globale) in rapida mutazione. Il tema dell’amministrazione collaborativa, come descritto nella presentazione del recente Annual Report di ForumPA, sembra cogliere questo aspetto, che vede, in concreto, la PA muoversi in un’ottica di garante delle reti di interlocutori e delle transazioni sociali che si snodano, mutevoli, intorno ad essa. Se questo è vero, occorre allora porsi una domanda: che dirigente pubblico si vuole e per far cosa? La banale risposta è che il dirigente pubblico altri non può essere che colei o colui che viene chiamata/o ad esercitare le peculiari funzioni di amministrazione della cosa pubblica: districandosi tra sapere amministrativo-contabile, managerialità e gestione delle risorse umane (qui andrà verificata la carica di potenziale dello smartworking) e capacità di interloquire con i tanti e diversi stakeholder che con la PA hanno a che fare, senza dimenticare il compito fondamentale di intessere con l’Autorità politica di riferimento condizioni e scenari per l’attuazione delle politiche. Ciò richiederebbe che tali responsabilità vengano attribuite a chi sia stato adeguatamente formato, magari attraverso una selezione che rivoluzioni una volta per tutte le modalità sinora troppo nozionistiche di testare i candidati. Ofelè, fa el to mestè, direbbe la saggezza popolare. Eppure, a fronte di una tale ovvietà, negli anni si è di fatto affermato il principio che chiunque possa esercitare il mestiere: la competenza non paga più. E non si tratta solo dell’annosa questione dell’accesso esterno, senza concorso, di soggetti scelti dalla politica, o dell’inusuale numero di magistrati cui vengono affidati uffici e dipartimenti (si è mai visto un dirigente pubblico amministrare la giustizia in un’aula di tribunale?): un progressivo svilimento della funzione ha di fatto comportato un depauperamento del valore del ruolo sociale della dirigenza, il cui capitale reputazionale si è pressoché dissolto nelle pubbliche opinioni e nel comune sentire.
Non è troppo tardi per invertire la rotta. È di tutta evidenza che il miglioramento dell’efficacia ed efficienza di un’organizzazione è un processo che non finisce ma si rinnova continuamente: la “perfetta amministrazione” di cui parla Benedetto Croce, e che Bernardo Mattarella richiama nel suo recentissimo volume su burocrazia e riforme, resta un traguardo mutevole e sfuggente. Tuttavia, all’indomani di uno sforzo riformatore imponente, i cui effetti vedremo nel medio e lungo periodo, recuperare responsabilmente alcune norme di basilare e civile convivenza fra pezzi della Repubblica, adottando accorgimenti mirati per scopi specifici, può far sì che il sistema delle amministrazioni Italiane diventi finalmente un pezzo dello sviluppo di questo Paese. Senza sconti a nessuno. Ma senza pregiudizi.