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Così le Nazioni Unite provano a imporre un cessate il fuoco in Siria (già violato)

hamas diritti

Dopo una maratona diplomatica di tre giorni, con vorticosi scambi di bozze e cambi di linguaggio all’ultimo minuto, il Consiglio di Sicurezza dell’Onu ha approvato ieri all’unanimità la risoluzione per un cessate il fuoco di trenta giorni in Siria. Una risoluzione pensata su misura di Ghouta est, il sobborgo di Damasco controllato dai ribelli che da settimane è al centro di un assedio coordinato da parte delle truppe lealiste con il sostegno dell’aviazione russa.

“Un inferno in terra”, sono le parole usate mercoledì dal Segretario Generale dell’Onu António Guterres per fotografare la grave condizione umanitaria dell’enclave siriana. Dove, secondo le stime fatte da Medici Senza Frontiere, nei soli ultimi cinque giorni sono morte 520 persone – di cui almeno 100 bambini – e si sono contati circa 2.500 feriti.

Adesso, secondo i termini della risoluzione approvata ieri, “tutte le parti in causa devono cessare le ostilità senza indugi e impegnarsi immediatamente nell’assicurare la piena e onnicomprensiva implementazione di questa richiesta (…) per una pausa umanitaria che duri almeno trenta giorni consecutivi, per permettere la consegna sicura, libera e sostenuta di aiuti umanitari e servizi e l’evacuazione medica dei malati e dei feriti”.

Naturalmente i problemi di Ghouta non sono finiti. Anzitutto, già oggi si registrano nuovi bombardamenti. In secondo luogo, non è detto che il cessate il fuoco regga: l’ultima volta che l’Onu ha approvato un provvedimento simile è stato nel dicembre 2016 e riguardava Aleppo, dove la tregua non entrò mai in vigore. In terzo luogo, la risoluzione non si applica alle formazioni terroristiche come lo Stato islamico, al Qa’ida e Hayat Tahrir al-Sham e prevede inoltre che le operazioni militari possano continuare contro tutti “gli individui, i gruppi e le entità associate” con queste sigle: e poiché si registra una presenza qaedista a Ghouta, che collabora con i ribelli locali, non è detto che il regime non prosegua la sua offensiva volta a debellare un gruppo che in queste settimane ha bersagliato la capitale Damasco con continui colpi di mortaio. Se da una parte si è piegata alla realpolitik, la Siria continua d’altra parte a ripetere che “stiamo combattendo terroristi sui nostri territori”, come ha detto l’ambasciatore siriano all’ONU Bashar Ja’afari. Che ha aggiunto che Damasco si riserva “il diritto di rispondere nel modo appropriato qualora quei gruppi terroristici armati prendano di mira i civili”.

Infine, ci sono le parole di cautela dell’ambasciatore russo Vassily Nebenzia, l’uomo che per tre giorni ha impedito con continue obiezioni l’approvazione della risoluzione. Nebenzia aveva giudicato la prima bozza “non fattibile” perché informata da un “approccio irrealistico che non farà niente per risolvere i problemi”. L’ambasciatore ha sottolineato che sarà necessario trovare “accordi sul terreno” perché le domande del Consiglio di Sicurezza trovino risposta: cosa più facile a dirsi che a farsi. Senza rinunciare alle polemiche dell’ultimo minuto, Nebenzia ha anche ricordato agli Stati Uniti che dovrebbero concentrarsi nella lotta al terrorismo “piuttosto che appesantire progressivamente la retorica contro la Russia”.

Parole che hanno infastidito non poco l’ambasciatrice americana Nikki Haley, prima fautrice di una rapida approvazione della risoluzione. “Nei tre giorni che ci sono voluti” per approvarla, ha sottolineato Haley, “quante madri hanno perso i loro figli sotto le bombe? Quante immagini ancora dobbiamo vedere di padri che tengono in braccio i loro figli morti”. Tutte queste persone sono “morte per niente”, ha concluso l’ambasciatrice, perché votando tre giorni prima si sarebbero potute salvare.

Al di là delle polemiche, quello di ieri è stato comunque un trionfo della diplomazia, anche di quella condotta sotto traccia come quella della Santa Sede, che attraverso il cardinale Pietro Parolin, segretario di stato vaticano, aveva ripetutamente appoggiato la “tregua umanitaria che l’Onu sta chiedendo”. Parolin ha rivelato di aver fatto “pressione” per “la fine della violenza, quindi l’accesso agli aiuti umanitari, il rispetto del diritto umanitario e, infine, una soluzione negoziata”.

Adesso si tratterà di vedere con che tempistica e in che misura verrà portato sollievo ai circa 350 mila abitanti di Ghouta Est. “Accettiamo”, ha detto il ministro degli esteri svedese Margot Wallstrom, “che ci vorrà un certo numero di ore prima che tutto possa essere implementato, dobbiamo mantenere alta la pressione, l’implementazione è la chiave ora”.

“Niente sarebbe peggio del vedere che questa risoluzione rimanga lettera morta”, ha commentato l’inviato francese François Delattre. “Per questa ragione”, ha aggiunto, “la Francia rimarrà estremamente vigile”. “La nostra generazione”, ha concluso Delattre, “sarà giudicata dal modo con cui siamo riusciti o meno a gestire la fine della tragedia siriana”.


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