E’ già finita la quiete nel Pd? Il largo consenso sui due nomi presentati da Pierluigi Bersani alla presidenza di Camera e Senato, Laura Boldrini e Pietro Grasso, aveva diffuso ottimismo a largo del Nazareno. Solo ieri in un’intervista a Formiche.net, Francesco Cundari dell’Unità spiegava che forse l’aria era cambiata e sulla strada del rinnovamento tutte le anime del partito potevano trovare un accordo.
Il niet di 97 deputati su Speranza
Un quadro che oggi non sembra già più così. Il Giornale ospita in prima pagina il faccione di Bersani che sarebbe “al capolinea” perché “neanche i suoi lo votano più”. Il quotidiano diretto da Alessandro Sallusti fa riferimento a quei 97 deputati Pd che non hanno votato alla Camera come loro capogruppo, il nome proposto da Bersani, Roberto Speranza. Il nome del giovane lucano coordinatore della campagna bersaniana alle primarie non ha convinto in molti dentro al Partito. Così se la nomina di Luigi Zanda al Senato è passata via liscia, per acclamazione, lo stesso non è avvenuto a Montecitorio dove alcuni deputati, come Luigi Bobba, hanno imposto il voto segreto. Voto che ha rivelato la non compattezza del gruppo sul candidato bersaniano, poco amato sia dai Giovani turchi che avrebbero preferito il “loro” Andrea Orlando che dai renziani, ancora memori delle sue stilettate durante le primarie.
Rinnovamento pilotato?
Così, hai voglia a dire come ha fatto ieri Bersani che “la ruota gira”. In un’intervista a Repubblica, il deputato ex rottamatore Pippo Civati, che ieri ha votato scheda bianca, ha spiegato: “Roberto è una figura giovane, dialogante e di talento. Non lo discuto affatto. Però non mi è piaciuto il metodo. Dal mio punto di vista pesa che nelle indicazioni per gli incarichi parlamentari non ci sia nessun eletto con le primarie”. Insomma si tratta “di un rinnovamento garantito, molto pilotato”.
Il pugnale di Renzi
E ad agitare gli animi di fronte alla grande prova che aspetta il Pd, domani l’ultimo partito a incontrare Giorgio Napolitano nel giro della consultazioni, compare nuovamente lo spettro di Matteo Renzi. La lealtà sempre esaltata dal sindaco di Firenze verso il suo segretario era stata messa a dura prova nei giorni scorsi sul caso finanziamento pubblico ai partiti, Renzi ne ha chiesto l’abolizione totale e il Pd (gli) ha risposto con una linea ufficiale più attenuata. E sul presunto dossier sui costi del Pd che il sindaco avrebbe commissionato e che ha, a dir poco, fatto infuriare Bersani & Co. Poi venne la tregua con la nomina di Grasso e Boldrini. Ma solo apparente. Perché sotto, sotto, come rivela oggi Claudio Cerasa sul Foglio, il sindaco nasconde già tra le mani il pugnale con cui farà fuori Bersani: in caso di fallimento del suo tentativo di formare un governo, l’unica alternativa non è, come ripetono in coro dal Pd, ultimo ieri Dario Franceschini a Ballarò, il voto. La proposta che sosterrà Renzi sarà invece quella di un governo istituzionale “per il bene del Paese”. Per le elezioni ci sarà tempo. Il tempo necessario a Renzi per costruire la sua scalata alla guida del Pd e dell’Italia. Del resto, i sondaggi (l’ultimo quelo Swg che lo dà al 44%) sono dalla sua parte.