Sergio Mattarella dall’alto del Colle osserva e riflette. Come si muoverà, quando sarà venuto il momento, è ancora presto per dirlo. Ma già oggi appare tutt’altro che scontato, anche se probabile, che il primo giro di consultazioni lo faccia uno dei due vincitori delle elezioni, Luigi Di Maio e Matteo Salvini. E comunque non è affatto scontato che toccherà a uno dei due l’incarico di presidente del Consiglio. Da una situazione così ingarbugliata si può uscire solo se anche quelli che oggi appaiono punti fermi diventeranno possibili variabili. Anche in politica vale il detto “chi entra Papa in conclave ne esce Cardinale”, e qui di aspiranti papi ce ne sono addirittura due. Il problema è che per diventare Papa, entrambi hanno bisogno di allearsi con il Pd, cioè gli sconfitti, ulteriore paradosso di questa Italia post voto.
Intanto c’è da registrare che uno di questi paradossi sembrerebbe risolto: le dimissioni postdatate di Renzi, a quanto pare, sono diventate immediate: a gestire il partito sarà il vicesegretario Martina, peraltro un fedelissimo interprete del vangelo secondo Matteo. Ma il condizionale è d’obbligo, almeno fino a lunedì quando si riunirà la direzione. Condizionale ancor più obbligatorio per le posizioni fin qui espresse quasi unanimemente a favore della scelta di opposizione, contro ogni ipotesi di “inciucio” o alleanza con M5s ed “estremisti” vari.
Il problema è che, anche a causa del “no” Pd, ogni ipotesi di governo è oggi apparentemente bloccata, con una deriva verso nuove elezioni.
Teoricamente, sia i pentastellati che il centrodestra potrebbero contare su numeri importanti in un governo di coalizione con i dem. Che però non sono, come si diceva, disponibili.
L’alternativa sarebbe una alleanza M5s-Centrodestra, ma sarebbe un ulteriore e incredibile paradosso allo stato dei fatti, anche se in politica vale il “mai dire mai”.
Ovviamente è possibile che dalla crisi del Pd o dalla scomposizione degli attuali assetti si palesi un gruppo di “responsabili” che vada a sostegno di uno dei vincitori per assicurare la maggioranza. I numeri necessari, al centrodestra come al M5s, sono tali però da renderlo assai difficile.
Resta più credibilmente in campo l’ipotesi di un governo di scopo o del presidente per fare una legge elettorale e portare il paese a nuove elezioni nel giro di pochi mesi. Ma è anch’essa una ipotesi più teorica che reale.
Intanto perché trovare un punto d’incontro tra i vari partiti su una nuova legge elettorale è impresa sulla quale il Parlamento potrebbe doversi esercitare a lungo, con scontri e veti incrociati tra tre forze che – va ricordato – da sole non hanno la forza di far passare nulla e che hanno obiettivi differenti. Secondo, perché una nuova legge elettorale dovrebbe fare i conti con i paletti posti dalla Consulta.
A proposito di leggi elettorali un altro dei paradossi è l’improvvisa nostalgia per l’Italicum con doppio turno e premio di maggioranza. Un sistema impossibile però da applicare sia perché in parte “riformato” dalla Consulta, sia perché costruito su una riforma costituzionale che escludeva il Senato. Oggi come si potrebbe prevedere quel sistema con due rami del Parlamento che hanno bacini e sistemi elettorali diversi, uno su base nazionale e l’altro regionale? Anche si tentasse di applicarlo, con un’operazione di ingegneria alla Frankenstein, molto probabilmente produrrebbe maggioranze diverse alla Camera e al Senato.
Legge elettorale a parte, ad aprile c’è da presentare il Def e per dicembre la manovra economica. Con quali voti? Se una cosa è chiara, è che i programmi economici dei due vincitori e dello sconfitto sono tutti molto differenti e spesso all’antitesi.
Non basta: qualcuno ricorda nella storia italiana un parlamento che si scioglie dopo qualche mese con parlamentari che acconsentono tranquillamente di votare il proprio ritorno a casa? Fantapolitica.
Gli stessi partiti, del resto, avrebbero difficoltà a votare un ritorno alle urne, al di là delle dichiarazioni. La politica costa e le elezioni costano moltissimo. Non tutti, anzi probabilmente nessuno, ha in cassa denaro sufficiente per ripetere la campagna elettorale.
Quindi, in un modo o nell’altro, un governo si farà. Come?
Forse potrebbe tornare in auge la grosse koalition. Ovviamente non quella Fi-Pd, tanto evocata prima del voto ma esclusa dai numeri usciti dalle urne. Bisognerebbe piuttosto guardare al metodo Merkel-Schulz: sottoscrivere una intesa programmatica chiara e sottoporla al voto della base dei partiti coinvolti. In Germania ha funzionato. E potrebbe funzionare anche in Italia, superando gli attuali “no” aprioristici e aprendo persino a una intesa – altro paradosso – tra M5s e Centrodestra, oltre a quelle più scontate e possibili che vedono i “perdenti” dem alleati con uno dei vincitori. Ma per riuscirci anche le bocce attualmente apparentemente ferme devono rimettersi in movimento e i leader essere capaci di fare qualche passo indietro sia personale che sull’inamovibilità dei programmi. Un processo non breve, tra consultazioni e votazioni dei partiti coinvolti, che potrebbe intanto lasciare Gentiloni al suo posto per il tempo necessario, tanto più se il Pd sarà uno degli azionisti della nuova maggioranza.
La Terza Repubblica potrebbe nascere così.
Mattarella, dalla sua posizione privilegiata e forte delle informazioni che solo lui è in grado di raccogliere, dovrà valutare se esiste una strada percorribile e come favorirla. Una strada che sarà basata sul realismo e sulla necessità di dare un governo al Paese. L’Europa ci chiede di proseguire sull’azione di risanamento e rilancio economico, non possiamo permetterci uno stop o un lungo periodo di inazione e instabilità quale quello di un governo di scopo e di nuove elezioni.