Giovedì scorso la Corte suprema indiana ha confermato la sentenza di condanna a morte per Yakub Abdul Razak Memon, giudicato colpevole per gli attentati di Mumbai del 1993 che fecero 257 morti e 713 feriti. Il fratello di Tiger Memon, l’uomo considerato la mente degli attacchi, ora fuggitivo si pensa in Pakistan assieme al padrino mafioso Ibrahim Dawood, è stato il solo degli 11 attentatori che ha visto confermata la pena capitale. Per gli altri c’è stata la condanna è stata commutata con l’ergastolo.
La marcia indietro del governo sulla decisione di trattenere i due fucilieri di Marina, Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, tornati alla fine in India, ha portato il tema delle condanne a morte nel Subcontinente sulla stampa italiana. Sulle prima pagine dei quotidiani online ieri si leggeva del rischio pena capitale per i due marò accusati dell’omicidio di due pescatori del Kerala. Il caso non rientra tuttavia nel novero dei “più rari tra i rari” per i quali nella giustizia indiana è contemplata la condanna a morte.
Lo ha ricordato anche il ministro degli Esteri, Salman Khurshid intervenuto al Parlamento. Secondo l’ultimo rapporto dell’Asian Centre for Human Rights, che ha lavorato sui dati dell’Ufficio nazionale sulla criminalità, tra il 2001 e il 2011 le condanne a morte sono state 1,455. Lo stato in cima alla lista è l’Uttar Pradesh con 370, seguito dal Bihar con 132. Nello stesso periodo le condanne commutate all’ergastolo sono state 4.321, metà delle quali a Delhi.
Come sottolineato da Amnesty International due esecuzioni a distanza di meno di quattro mesi l’una dall’altra, dopo una moratoria di fatto di quasi otto anni, costituiscono un passo indietro. L’ultimo caso in ordine di tempo risale allo 9 febbraio scorso con l’impiccagione di Mohammad Afzal Guru, condannato nel 2002 perché accusato di aver fornito armi al gruppo che assaltò il Parlamento indiano del dicembre 2001. Nell’episodio morirono otto guardie di sicurezza e un giardiniere. L’esecuzione non ha mancato di sollevare polemiche soprattutto sulla confessione di Guru, forse estorta con la tortura, e la mancata assistenza durante il primo periodo di detenzione. Legata al terrorismo è anche l’altra impiccagione degli ultimi mesi, quella del pachistano Ajmal Kasab unico sopravvissuto del commando che nel 2008 sferrò una serie di attacchi nel centro di Mumbai, che fecero 166 morti. Prima di allora bisogna tornare con la memoria al 2004, quando una guardia giurata fu giustiziata per l’omicidio e lo stupro di una studentessa quattordicenne. Ed è stata proprio la violenza di gruppo e l’uccisione di una ventitreenne a Delhi lo scorso dicembre a riaccendere il dibattito sulla pena di morte e sulla condizione della donna in India.
A febbraio, il presidente Pranab Mukherjee firmò un ordine che impone pene più severe per gli stupratori, compresa la condanna a morte. Misure diventate legge con il via libera del Parlamento dato giovedì. Anche in questo caso però vale la regola del più raro dei casi rari.
Scritto per il manifesto e Lettera 22