Nel “triangolare delle spie”, che è un po’ come il Sei Nazioni del rugby, il match decisivo è quello tra Stati Uniti e Gran Bretagna, perché quelli con la Russia finiscono inevitabilmente in parità. Chi ne ha espulsi di più, di diplomatici russi? Theresa May s’è fermata a 20; Donald Trump è arrivato a 60, fra cui una dozzina di accreditati all’Onu e, come bonus, la chiusura del consolato di Seattle. Quel che è certo è che, in questi casi, non vale il principio del porgere l’altra guancia, ma quello, meno evangelico, ma più globalizzato, dell’occhio per occhio, dente per dente. Per cui, tanti espulsi in un senso ne richiamano altrettanti nell’altro. Se volessimo considerare il torneo un quadrangolare, con l’inserimento dell’Ue, tenere aggiornata la classifica sarebbe più difficile, perché bisognerebbe calcolare le misure comunitarie – l’Ue ha richiamato per consultazioni l’ambasciatore a Mosca – e di quelle nazionali: 14 diplomatici russi espulsi, due dall’Italia.
In questi match, in realtà chi spara per primo e più alto dichiara la propria impotenza: se la May o Trump privano, da un giorno all’altro, di una ventina o addirittura di una sessantina di diplomatici lo staff russo a Londra o a Washington, vuol dire che sono disposti a privarsi di altrettanti elementi nei loro staff a Mosca. Il che equivale ad ammettere che i rispettivi apparati diplomatici sono ipertrofici: se posso rinunciare a decine di persone in un colpo solo, vuol dire che so che le attività di rappresentanza politica, economica, commerciale, culturale, consolare non ne soffriranno troppo.
Le guerre delle spie sono come le guerre dei dazi – e pare che il presidente Trump ci vada volentieri, alle une come alle altre -: non le vince mai nessuno e, a conti fatti, ci perdono sempre un po’ tutti. Questa, poi, è particolarmente difficile da comprendere. È una questione di principio che non si va in trasferta ad ammazzare la spia propria divenuta altrui? Sacrosanta affermazione, che andrebbe, semmai, estesa a “non si va ad ammazzare nessuno” o, ancor meglio, a “non si ammazza nessuno”. Ma resta da provare, in questo caso, “chi ha provato ad ammazzare chi”; e resta da fugare il sospetto che gli 007 con licenza di uccidere non li abbiamo inventati noi.
E, poi, a dirla tutta, io non mi ci raccapezzo più. Trump viene eletto e tutti mostrano di credere, lui per primo, che i rapporti degli Usa con la Russia di Putin miglioreranno. Il presidente passa un anno a dire che non c’è stata nessuna ingerenza russa nelle elezioni Usa e che sono tutte “fake news” messe su dai democratici. Poi, di punto in bianco, cambia registro: l’ingerenza c’è stata, ma era tutto un complotto dei democratici per danneggiarlo. Infine, lui si dota di una linea “esteri e sicurezza” più d’offesa che di difesa, con l’aggressivo Mike Pompeo agli Esteri (al posto dell’innocuo Rex Tillerson) e il diplomatico d’assalto John Bolton alla sicurezza nazionale (al posto del generale di buon senso H.R.McMaster).
Allora, è guerra, sia pure fredda, con la Russia? No, perché appena Putin è rieletto, con percentuali da farlo rosicare, Trump gli telefona, lasciando allibiti molti commentatori, e i due presidenti fanno sapere di volersi incontrare – come e dove non si sa, un po’ come nel caso del Vertice tra Trump e Kim -. Allora, è di nuovo pace con la Russia? No, perché Trump decide e annuncia le espulsioni. Subito dopo avere aperto il fronte dei dazi con la Cina.
C’è una logica? in tutto questo; e una continuità? Io non le vedo. C’è chi ipotizza che un filo rosso leghi le mosse di Putin, Trump e della May: indebolire l’Unione, metterne a nudo le contraddizioni e le divisioni di fronte alle sollecitazioni delle sanzioni commerciali e delle misure diplomatiche. Io non penso che sia così: l’Unione sciorina per conto sue le sue debolezze, non c’è davvero bisogno di fare sacrifici e sforzi per metterle a nudo.
La logica, se c’è, è altrove; e le vicissitudini drammatiche di Serghiej Skripal e di sua figlia Yulia sono un paravento dietro cui nasconderla.