Si è chiusa ieri sera la tre giorni delle elezioni presidenziali egiziane. L’attenzione dei media internazionali verso l’evento è stata certo maggiore rispetto a quella con cui i locali hanno seguito le operazioni di voto. Sul punto principale non v’è infatti alcun dubbio: Abdel Fattah al Sisi, il presidente in carica, otterrà un nuovo mandato quadriennale battendo il suo semi-sconosciuto rivale, Moussa Mustafa Moussa del partito liberale El Ghad, una candidatura avanzata con il dichiarato scopo di “evitare un vuoto politico”. L’unico dato che l’entourage di al Sisi attende con trepidazione (e con timore) è quello riguardante l’affluenza. Nei giorni antecedenti il voto lo stesso capo dello Stato ha fatto appello ai cittadini affinché si rechino in massa alle urne; alcune fonti locali parlano addirittura di denaro offerto agli elettori per presentarsi ai seggi.
Formiche.net ha sentito Maged Mandour, analista politico egiziano che lavora da Zurigo per Open Democracy e Carnegie Endowment, secondo cui quelle in corso non sono vere e proprie elezioni: si tratta, piuttosto, di “un referendum basato sul livello di partecipazione”. “Non c’è stata una campagna elettorale, né è stato presentato alcun programma significativo. Le settimane che hanno preceduto il voto sono state dominate da vaghi e incessanti appelli al nazionalismo e alla stabilità”. Stabilità è una parola chiave per al Sisi, che sull’altare del contrasto all’islamismo militante ha chiuso negli anni ogni spazio di aggregazione per i dissidenti e per l’opposizione.
A questo proposito, il 9 febbraio scorso le forze armate hanno lanciato una maxi-operazione contro il terrorismo nella penisola del Sinai per eliminare le ultime sacche di resistenza jihadista in un’area che sembra continuare a sfuggire al controllo dello Stato. Secondo Mandour, si tratta di “una mossa elettorale”, con il chiaro scopo di “guadagnare consenso popolare” ma senza alcuna reale prospettiva di successo: “questo tipo di approccio – spiega l’esperto – ha già alimentato l’insorgenza piuttosto che fermarla e, inoltre, non s’inserisce in un più ampio quadro di risoluzione dei problemi politici e sociali del Sinai”.
Con l’esito del voto non in discussione, ci si chiede che cosa porterà con sé il secondo incarico presidenziale per il presidente al Sisi. “La cosa più probabile – è l’opinione di Mandour – è che si assista a un incremento della repressione nei confronti dei dissidenti, mentre l’establishment militare proseguirà la propria scalata all’interno del sistema economico egiziano. C’è anche il timore, in assenza di una vera opposizione, di un emendamento che consenta ad al Sisi di restare al potere senza alcun limite costituzionale”.
Giuseppe Dentice, ricercatore dell’Istituto per gli studi di politica internazionale (Ispi) e autore di un recente rapporto sulle sfide che attendono l’Egitto nei prossimi anni, è convinto però che il regime rischi molto. “Il principale campanello d’allarme è la situazione economica. Il paese vive su aiuti internazionali, in particolare quelli del Fondo monetario internazionale, senza i quali sarebbe probabilmente in bancarotta. I finanziamenti hanno permesso al governo di risalire leggermente la china, con la contestuale eliminazione di alcuni sprechi come i sussidi statali, che pesavano su circa il 10 per cento del Pil. Ma il risparmio sui conti pubblici è gravato sulle spalle della popolazione, anche e soprattutto della classe media, attraverso l’aumento dell’inflazione e la svalutazione della moneta locale”.
I problemi economici si riflettono inevitabilmente sulla tenuta sociale. Dentice ricorda come i processi rivoluzionari del 2011 e del 2013 siano stati generati anche dal malcontento e dalla crisi economica. “Il governo ha cercato di ovviare con una serie di misure populiste, finendo però con l’accelerare un processo di polarizzazione che ha portato a un sistema simile a uno stato di polizia. L’instabilità ha ripercussioni anche sul piano securitario: pensiamo non solo al Sinai, ma anche a quello che accade nelle grandi città e in aree come la Valle del Nilo, dove lo Stato soffre di importanti vuoti di legittimità”.
L’impressione di rassegnazione che oggi aleggia sul mondo giovanile (esemplificativo il caso delle università della capitale, storico serbatoio della classe intellettuale, nelle quali da un paio d’anni sembra essersi spento accenno di tumulto) non deve dunque ingannare. “Le istituzioni – osserva Dentice – mostrano fierezza e un’apparente graniticità, ma la situazione è molto complessa e le sfide sono talmente grandi da poter avere riflessi notevoli sulla stabilità del sistema. Ci si chiede se questo Stato possa dare delle risposte ai problemi della società. Se dovessimo giudicare in base a quanto visto finora, la risposta è no”.