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Per il sud servono politici che pensino da statisti

Di Matteo Caroli

La necessità di una strategia per il sud è emersa con forza dal voto del 4 marzo e non potrà non essere tra i principali temi nell’agenda economica (e non solo) del nuovo governo. Del resto, con notevole tempismo, nei giorni scorsi, il presidente di Confindustria, Vincenzo Boccia ha dichiarato che “bisogna creare una politica industriale che riparta dal Mezzogiorno come questione nazionale”. La disattenzione di questi anni offre almeno l’opportunità di impostare le politiche per il Mezzogiorno non più sulla base di stereotipi e aneddotica, ma su dati oggettivi e organici. L’ultimo rapporto Svimez sull’economia del meridione presenta un’analisi molto articolata e corredata da numeri robusti. Per un verso, evidenzia come nel 2015 e 2016 il sud sia cresciuto a un ritmo persino superiore (sia pur di poco), del resto del Paese; per l’altro che, nonostante un certo incremento degli occupati, rimane l’area con il più basso tasso di occupazione dell’Unione europea.

Altrettanto significativa è la forte eterogeneità della dinamica economica nelle varie Regioni meridionali, con le performance positive trainate sostanzialmente da Campania e Basilicata. Emerge dunque un Mezzogiorno “reattivo”, almeno in alcuni territori e settori produttivi, ma troppo zavorrato da una situazione sociale in drammatico, continuo peggioramento e dal persistente depauperamento del capitale umano qualificato. Molte altre evidenze andrebbero ovviamente prese in considerazione, ma già questi pochi  flash suggeriscono che una politica per la competitività dell’economia meridionale deve essere funzionale anche alla soluzione strutturale dell’emergenza sociale.

In questo senso, il rilancio del sud può divenire l’ambito ove realizzare un modello di crescita economica realmente inclusiva e a beneficio di tutti.I dati mostrano che le ragioni della debolezza economica del sud sono le stesse che rallentano tutto il Paese, ma molto più enfatizzate: la bassa produttività inevitabilmente deprime la remunerazione del lavoro; l’eccessiva complessità normativa che alimenta una burocrazia inefficiente e inefficace, abbattendo la convenienza di nuovi investimenti produttivi; la troppo limitata presenza di medie e grandi imprese in grado di investire fortemente in innovazione e agire da traino di  filiere produttive anche internazionali.

E poi ci sono nodi di natura non strettamente economica, ma che impediscono a qualsiasi rilancio produttivo di generare effetti positivi realmente diffusi: il blocco del cosiddetto ascensore sociale; il persistere di piccole e grandi rendite di posizione; la fortissima divaricazione tra chi ha accesso alle opportunità e chi rima- ne, nella migliore delle ipotesi, ai margini. Un insieme di problemi già evidenziati da tempo e da più parti, ma che rischiano ormai di essere vicini al punto di non ritorno. È dunque importante considerare il rilancio economico e sociale del sud come questione nazionale, ma occorre farlo con metodo fortemente innovativo. Innanzitutto, con il coraggio di attuare cambiamenti davvero strutturali e di lungo termine. Un esempio: le Zes (Zone economiche speciali) devono essere rese aree convenienti per nuovi investimenti produttivi non attraverso i soliti sconticini fiscali, ma per un mix di profonda semplificazione normativa e burocratica e tolleranza zero verso chi non rispetta le leggi.

Lo stesso dovrebbe valere per il rilancio delle Aree produttive ecologicamente attrezzate, introdotte dal governo nazionale ormai quasi venti anni fa e rimaste lettera morta in tutto il Mezzogiorno. Poi serve un patto tra il sistema pubblico e le imprese meridionali sane e lungimiranti: il primo attua un processo di concreto miglioramento delle condizioni “di contesto”: dalla sicurezza alla qualità delle scuole; dall’efficienza dell’Amministrazione pubblica alle infrastrutture economiche.

Le seconde innovano il loro modo di operare per creare non solo pro tto indi- viduale, ma valore condiviso che bene ci davvero tutta la comunità di cui fanno parte. Infine, occorre individuare grandi progetti che coniughino produzione economica, miglioramento sociale e ambientale, rafforzamento dell’immagine del territorio, sviluppo del sistema di conoscenze locali; su questi progetti, ingaggiare investitori e imprenditori all’altezza, anche internazionali, interessati a un impegno di lungo ter- mine nel sud, in una logica di co-sviluppo. Per attuare una strategia di questo genere occorre una politica (in effetti, tutta una classe dirigente) nuova, o comunque innovativa, che faccia tesoro di un noto pensiero di Alcide De Gasperi: “Un politico guarda alle prossime elezioni, uno statista alla prossima generazione”; speriamo che questa sia la volta che del sud si occupino politici (e classi dirigenti) che almeno provino a comportarsi da statisti.


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