E poi non rimase più nessuno, si potrebbe concludere prendendo a prestito dal celebre romanzo di Agatha Christie.
Il copione si ripete con preoccupante regolarità: un Paese viene invitato a entrare, come nei Dieci piccoli indiani, in un luogo bellissimo: nientemeno che un’unione monetaria che promette pace e prosperità.
All’inizio tutto sembra andare per il meglio. Nelle banche di questo paese affluiscono fiumi di euro, che ne gonfiano i bilanci spingendole all’azzardo, i cittadini godono di un’improvvisa apertura di credito e cominciano a consumare a mani basse, i prezzi degli asset salgono, tutti si indebitano. Ma va bene così: è il capitalismo, bellezza.
Poi succede qualcosa. Uno scricchiolio sinistro, da Oltreoceano o da dove volete voi, mette paura ai prestatori. Cominciano a richiamare i capitali e i paesi, proprio come i piccoli indiani, cominciano a entrare in coma uno dopo l’altro, per non dire che muoiono.
Si congettura su chi sia l’assassino e intanto si cerca di rianimare il paziente. Prima la Grecia, ultimo Cipro. In mezzo la Spagna, il Portogallo, l’Irlanda, e l’Italia un giorno sì e l’altro no. Già ci si chiede chi sarà il prossimo. Forse la Slovenia, che si dice abbia un sistema finanziari imbottito di titoli tossici (almeno un quinto del Pil) o magari l’Ungheria. Chi lo decide? In base a quali parametri?
Una cosa finora è apparsa chiara: la grandezza di un paese è inversamente proporzionale al grado di danno che può sopportare. Una crisi a Cipro fa più male di una crisi spagnola. O perlomeno questo è quello che divulga il mainstream politico-economico, forse perché le realtà più piccole sono quelle più adatte a fare pratica di salvataggi.
Nel dubbio, possiamo provare solo a fare due conti. Partiamo da una domanda: cosa rende un paese sovrano fragile? La risposta più ovvia è: i troppi debiti. Il fatto però è che i debiti non sono tutti uguali. Uno Stato indebitato con i propri cittadini potrà sempre decidere di non ripagarli. Al massimo verranno cacciati i politici responsabili e finisce lì.
Uno stato che ha debiti con l’estero, al contrario, dipende letteralmente dalla generosità dei suoi creditori. Se smettono di comprare i suoi titoli, e noi lo sappiamo bene, non potrà più pagare gli stipendi. Se i creditori ritirano i suoi attivi, lo ha scoperto Cipro con la Russia, il paese finisce in miseria.
Perciò sembra del tutto ragionevole andare a vedere un indicatore macroeconomico assai interessante che ci racconta lo stato di salute di un paese relativamente ai suoi conti con l’estero, ossia la posizione patrimoniale netta internazionale.
Tale indicatore misura il saldo fra le attività e le passività estere. Per farla semplice, dice quanto è indebitato un paese rispetto al resto del mondo. L’indicatore non distingue fra debito privato e debito pubblico, per saperlo bisognerebbe analizzare i saldi settoriali. Però è uno strumento utile a misurare la fragilità finanziaria di un paese.
Cominciamo da noi. Proprio oggi la Banca d’Italia ha pubblicato la posizione netta italiana sull’estero, che nel terzo trimestre 2012 era negativa per 351,471 miliardi di euro, più o meno il 20% del Pil. Un dato simile a quello che ci siamo andati a ripescare sul sito di Eurostat, che ha pubblicato un interessante prospetto dei saldi netti di tutti i paesi dell’eurozona a partire dal 1971. Una lettura edificante.
Nell’Ue a 27, a fine 2011, i paesi con posizione netta negativa erano 20. I nostri venti piccoli indiani. Undici se consideriamo solo quelli che hanno aderito all’euro.
I creditori sono sette: Belgio, Danimarca, Germania, Malta, Olanda, Finlandia, Lussemburgo. Di questi solo la Danimarca non ha aderito all’euro. La posizione netta, il relazione al Pil, migliore di tutte è quella del Lussemburgo, che vale il 107,6%. Ma ovviamente è la Germania a fare la parte del leone con il suo 32,6% di saldo attivo estero sul Pil, che pure se vale la metà di quello del Belglio (65,7%) è assai più corposo a livello di stock, viste le dimensioni del Pil tedesco.
Se questi sono i creditori, andiamo a vedere i debitori. La Grecia, nel 2007, quando inizia a spirare il vento della crisi, aveva una posizione netta negativa pari al 96,1% del Pil. Quando scoppia la crisi gli investitori iniziano a richiamare i capitali, ed ecco che la posizione negativa cala improvvisamente al 76,8%. Poi arrivano i prestiti per salvare il salvabile, ed ecco che nel 2010 la posizione netta arriva ad essere negativa per il 98,4% del Pil.
Lo stesso copione che vediamo in Spagna. Nel 1992 il saldo netto era negativo per appena il 19% del Pil. Nel 2002, dopo l’euro, è già al 41,6% e sale costantemente. Al top dell’euforia, nel 2009, prima che la crisi spagnola diventasse d’attualità, era già al 93,7%. E poiché in Spagna il debito pubblico è rimasto sotto controllo per lunghi anni, questo peggioramento è stato chiaramente guidato dal debito privato.
Paese diverso, stessa storia. Portogallo: nel 1995 il saldo netto era negativo per uno striminzito 9,5%. Nel 2002 era già al 54,6. Nel 2009 addirittura al 110,4%. In pratica il Portogallo ha più che decuplicato la sua esposizione estera in un quindicennio. Chiaro che i creditori lo abbiano messo sotto Troika. Con la conseguenza che ora il suo saldo netto è negativo per il 105% del Pil.
La storia dell’Irlanda è ancora più illuminante. Nel 1997 è addirittura creditrice netta per l’11,6% del Pil, e dua anni dopo arriva addirittura al 50,4%. Poi il crollo. Nel 2002 la posizione è già negativa per il 17,9%, ma il crollo vero si registra nel 2008, quando arriva al -76,2%. Nel 2011 è ancora peggiorata: -96%. Per anni l’Irlanda ha attratto capitali con la sua legislazione favorevole all’impresa, il mercato immbiliare è salito alle stelle, il dimagrimento, via rimpatrio dei capitali, dolorosissimo e non ancora concluso.
E Cipro? Beh, l’isoletta che così tanto ha fatto patire mezzo mondo in queste settimane ha raggiunto il suo peggio nel 2009, con un saldo netto estero negativo per l’82,7% del Pil. Assai meno che la Spagna, il Portogallo. Nel 2011 era pure migliorato al 73,3%. Eppure sono bastate voci sulla fragilità di un sistema bancario ipertrofico (come se ce ne fosse uno che non lo sia oggi nell’Unione) perché tale quota di debiti fosse giudicata insostenibile.
E state sicuri che c’è molto di peggio: l’Ungheria, ad esempio, ha sfondato il 117% nel 2009 e nel 2011 quotava il 105%. Gli ex paesi del blocco sovietico hanno tutti posizione nette negative nell’ordine del 60-80% del Pil. Anche qui capire bene chi sono i creditori e se si tratti di debito pubblico o privato è dirimente. Ma di sicuro non resisterebbero a lungo a un prelievo dei capitali esteri dalle propri economie.
E poi ci sono i giganti, Francia e Gran Bretagna, che quotano il 15,9 3 il 17,2% di saldo netto negativo. Poco sotto rispetto a noi.
Stando così le cose, risulta ozioso chiedersi chi sarà il prossimo.
Meglio sarebbe chiedersi quando succederà di nuovo.