Il sud è tornato, dopo circa un quarto di secolo, uno dei protagonisti della vita politica italiana. Dopo una fase in cui le elezioni regionali hanno dato una forte maggioranza alla sinistra (di vari partiti), alle più recenti elezioni regionali ha vinto alla grande il centrodestra e pochi mesi dopo gli elettori si sono pronunciati in massa a favore del Movimento Cinque Stelle (M5S) che si dichiara “post ideologico” e precisa di non essere né di sinistra né di destra e di avere come obiettivo la modernizzazione dell’Italia. L’elettorato quindi è molto mobile. Con il suo voto, il Mezzogiorno può determinare maggioranze parlamentari.
Ho viaggiato per decenni nel Mezzogiorno per insegnare, come docente stabile, nelle sedi della Scuola Nazionale d’Amministrazione a Caserta, Reggio Calabria ed Acireale, nonché come docente a contratto, presso l’ateneo di Palermo e presso il Cerisdi (Centro di ricerca e formazione della Regione Siciliana). La mia famiglia ha solide radici nella Sicilia orientale, dove sono tornato di recente per una cerimonia, fermandomi alcuni giorni.
La scorsa settimana l’Inps ha presentato i primi dati sul reddito di inclusione (rei), la misura di contrasto alla povertà partita a gennaio. L’associazione Open Polis ne ha diffuso un’attenta analisi lunedì 9 aprile. In breve, nei primi 3 mesi del 2018 ha raggiunto 317mila persone, per oltre il 70% famiglie meridionali. Questo dato ha riaperto la questione (mai sopita) delle condizioni sociali del Mezzogiorno.
Il rei è un assegno mensile che varia in base a quanto è numerosa la famiglia: si va dai 187,50 euro al mese per un solo componente ai circa 540 euro per le famiglie con almeno 5 membri. Viene erogato attraverso una carta prepagata, e possono riceverlo i nuclei familiari in gravi condizioni economiche (sotto i 6mila euro di Isee e altri limiti patrimoniali). Il rei prevede un sussidio per il nucleo familiare e l’attivazione di un progetto per l’uscita dalla povertà. È subordinato anche ad altri requisiti (la presenza di almeno un minore nella famiglia, oppure di un disabile, una donna incinta o una persona disoccupata con più di 55 anni), ma da luglio 2018 (grazie alle risorse aggiunte con l’ultima legge di bilancio) resteranno solo i requisiti economici, rendendolo una misura universale. A regime è previsto uno stanziamento pari a circa 2 miliardi di euro annui, capaci di raggiungere 2,5 milioni di persone. Un passo avanti ma ancora non in grado di corrispondere all’intera platea dei poveri assoluti in Italia, quantificata da Istat in 4,7 milioni di individui. Un numero che nel corso dell’ultimo decennio è cresciuto soprattutto nel sud. Ad oggi il rei può aiutare solo la metà dei poveri e due milioni dei 4,7 milioni di poveri assoluti vivono nel Mezzogiorno. Data la minore popolosità, al Sud la povertà assoluta incide maggiormente (9,8%) che nel centro nord. Significa che quasi un abitante su 10 non può permettersi l’insieme dei beni e servizi che sono considerati essenziali per mantenere uno standard di vita minimamente accettabile.
Il dato può essere spiegato soprattutto con la mancanza di lavoro: le regioni con più beneficiari del rei sono anche quelle dove il tasso di disoccupazione è più alto. Campania, Sicilia e Calabria sono le 3 regioni dove il numero di percettori del reddito di inclusione è di gran lunga maggiore. Sono anche le uniche ad aver registrato nel 2017 un tasso di disoccupazione superiore al 20%.
Si esce dalla povertà con il lavoro e con “empowerment” (fare sì che i poveri abbiano voce in politica); la mobilità dell’elettorato è che in una democrazia avanzata come quella dell’Italia, empowerment non fa del tutto difetto ai poveri , i quali sono, in gran misura, dei “senza lavoro” nel senso tecnico di coloro che cercano lavoro senza trovarlo.
L’impoverimento del sud si è aggravato da quando, con l’introduzione dell’euro, è finita l’epoca dei deprezzamenti e delle svalutazioni che servivano a dare una spinta, non sempre di lungo respiro, all’industria del Mezzogiorno. Molti di noi lo avevano preconizzato. Avevano, in precedenza, criticato il modo in cui nel 1989 il ministro del Tesoro Carli ed il Governatore della Banca d’Italia Ciampi avevano pilotato la fine degli ultimi controllo dei cambi e l’ingresso della lira nella ‘fascia stretta’ degli accordi europei sui cambi, innescando un sovrapprezzamento della nostra moneta che da allora ci trasciniamo. Il costo di questi errori è stato pagato soprattutto dal Sud. Ma non è tempo di piagnistei, come disse Piero Bargellini, allora sindaco di Firenze, nella Galleria degli Uffizi e con il fango sino alle ginocchia, nei momenti più bui dell’alluvione del 1976. Ormai a circa trent’anni di distanza c’è poco da fare.
Occorre, invece, puntare sui quei segni di speranza che cominciano a vedersi. Indicazioni importanti emergono dal settimo rapporto su Le Imprese Industriali nel Mezzogiorno 2008-2016 della Fondazione Ugo La Malfa (Fulm), ancora in corso di stampa. Il documento realizzato in collaborazione con l’area studi di Mediobanca suggerisce, con analisi empiriche, che, in certe aree ed in certi settori mercerologici le medie imprese del Sud presentano la stessa produttività di quelle del quarto capitalismo: sono efficienti e danno buoni risultati. Con politiche mirate, comprensive di zone economiche speciali, si può riaccendere il motore del Sud.
Altro punto essenziale sono le grandi infrastrutture, che hanno un duplice effetto: nella fase di cantiere stimano l’utilizzazione del fattore lavoro, creando occupazione anche nell’indotto; in quella a regime, aumentano la produttività. È da lamentare la decisione presa alcuni fa di chiudere la “struttura di missione” per la legge obiettivo e arrestare così per un lungo periodo i finanziamenti pubblici alle infrastrutture. Le risorse pubbliche sono limitatissime ma si possono mobilitare risorse private per investimenti a lungo termine, compito iniziato alcuni anni fa dal Long Term Investment Club, di cui fa parte la Cassa Depositi e Prestiti e di cui da molto, troppo tempo, quasi non si parla. Sono idee concrete da cui partire.