Quando ho deciso di accostarmi, da giurista e cittadina europea, alla vicenda catalana, un mio vecchio amico spagnolo ha ritenuto suo dovere mettermi in guardia. Si tratta, mi ha detto, di un conflitto più complesso di quanto non appaia a un osservatore esterno. “Sugiero que no te mojes” (“suggerisco di non bagnartici”, letteralmente), ha concluso, con una precisazione di cortesia sulla mia pure solida tendenza all’approfondimento.
Effettivamente l’affaire Catalogna è, sotto un profilo interno, infinitamente controverso. Le sue radici affondano nel passato remoto della storia spagnola e in una concatenazione di eventi talmente variegata che gli stessi commentatori nazionali faticano a trovare una sintesi.
A fronte dell’inafferrabilità della questione interna per l’osservatore straniero, esiste però almeno un profilo sul quale, come comunità internazionale ed europea, è forse possibile svolgere alcune riflessioni più solide. Mi riferisco al problema dei diritti civili e politici dei protagonisti delle istanze indipendentiste che, come cittadini di un’Europa e di un mondo che si muovono secondo schemi spesso imprevedibili, ci riguarda da molto vicino.
Sgombriamo il campo da prese di posizione nette o da atteggiamenti inutilmente buonisti: la crisi catalana è grave e sostanzialmente inedita (neppure il precedente sloveno, per varie ragioni, può costituire un valido metro di paragone); le istanze indipendentiste si sono per alcuni profili collocate al di fuori della cornice di legalità propria di uno Stato di diritto; il governo spagnolo affronta da mesi – spesso navigando a vista – uno dei momenti più delicati della propria storia post-franchista, e sarebbe irrealistico immaginare da Madrid una risposta soft alle istanze separatiste.
Sta però di fatto che, da diversi mesi, i vertici dell’area indipendentista, accusati di ribellione e distrazione di fondi pubblici per aver messo in piedi un referendum in violazione del tracciato costituzionale, scontano una carcerazione preventiva in attesa di un processo la cui fine è prevista non prima della fine del 2018. Provvedimento, la prolungata detenzione preventiva in carcere – peraltro da poco riconfermato – un tanto radicale soprattutto considerata la natura pacifica e la sostanziale carenza di violenza nelle condotte dei leader indipendentisti e più in generale del movimento che a questi fa capo (a dispetto da quanto sostenuto dalla Guardia Civil che nella propria informativa inviata al giudice LLarena riporta quattrocentoquattro incidenti catalogati come violenti asseritamente commessi dal fronte indipendentista in Catalogna.
Del medesimo parere sembra peraltro essere anche il giudice tedesco che ha disposto la scarcerazione su cauzione dell’ex presidente Carles Puigdemont, non rilevando i requisiti propri del reato di ribellione nei fatti descritti dal giudice della Corte Suprema spagnola Pablo Llarena nel proprio mandato di arresto europeo. Divergenza di vedute (peraltro da parte di un giudice di rango minore quale è quello tedesco rispetto alla Corte Suprema spagnola) plausibilmente destinata a creare malumori sul versante iberico e attriti sul punto dell’estradizione.
Inevitabile, alla luce di questi eventi, il rafforzarsi degli interrogativi sui metodi utilizzati da Madrid per la gestione della crisi e l’utilizzo da parte di quest’ultima dello strumento giudiziario.
D’altra parte, l’internazionalizzazione del dibattito e lo spostamento del fuoco sulla presunta violazione dei diritti civili sembra essere una precisa strategia mediatica dell’area indipendentista.
Non a caso, il 1 marzo scorso, l’ex presidente Puigdemont ha anche depositato un ricorso contro la Spagna presso il Comitato per i Diritti Umani delle Nazioni Unite, un organismo composto da esperti indipendenti con la funzione di monitorare il rispetto da parte degli Stati aderenti dell’“International Covenant on Civil and Political Rights” (il Patto sui diritti civili e politici) competente anche a decidere su ricorsi individuali con i quali i cittadini affermino una violazione dei propri diritti da parte degli Stati che abbiano ratificato il Protocollo aggiuntivo al Patto.
Nella specie, Puigdemont lamenta, a seguito delle misure adottate dal Governo spagnolo e dalla Corte Costituzionale anche nei confronti degli altri leader agli arresti, la violazione del proprio diritto di partecipare efficacemente alla vita politica (ivi incluso il diritto di partecipare alle elezioni); del diritto di associazione politica e della propria libertà di espressione politica, così come garantiti tanto dalla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e dal Patto sui diritti civili e politici.
L’esito della controversia è tutt’altro che scontato: la Spagna, – che, dalla registrazione del caso avvenuta lo scorso 26 marzo, avrà sei mesi di tempo per prendere posizione sia sul merito del ricorso che su eventuali profili di inammissibilità – sarà chiamata a dimostrare, tra le altre cose, che le misure adottate nella gestione della crisi catalana sono proporzionali alle presunte violazioni ed emesse da un potere giudiziario imparziale e indipendente (privo cioè di qualsiasi pressione esterna dagli altri poteri dello stato, in primis il Governo). Dall’altro lato, la questione sembra quella di verificare se e come l’esercizio dei diritti politici debba essere tutelato quando esorbiti dalla cornice legale.
Al di là della forza vincolante (assai discussa) della decisione del Comitato, un eventuale accertamento della violazione, da parte della Spagna, dei diritti civili e politici dell’ex presidente e degli altri vertici dell’indipendentismo catalano avrebbe certamente un impatto morale molto significativo sulla posizione di Madrid nel dibattito internazionale in merito alla vicenda catalana.
Ciò che è certo, è che il mondo sta osservando con attenzione la condotta della Spagna nella gestione della crisi.
A questo proposito, è difficile comprendere perché, a distanza di diversi mesi dal referendum, il Governo spagnolo continui a deferire al potere giurisdizionale la risoluzione di un conflitto che è essenzialmente politico e sociale, e che richiederebbe dialogo e riconciliazione più che dichiarazioni di incostituzionalità e mandati d’arresto preventivo.