A circa un anno dalle elezioni del 2019, l’Unione europea è pervasa, come si è visto anche in occasione del successo di Orban alle presidenziali in Ungheria, da forti critiche e notevoli spinte disgregatrici che hanno trovato il loro culmine ed il loro riferimento nella Brexit.
Ma siamo sicuri che tutte le responsabilità siano da attribuire ad un errore di valutazione di quella maggioranza di cittadini britannici che hanno votato “Leave” scegliendo di abbandonare l’Unione Europea, determinando così una scelta sfavorevole ai propri stessi interessi? E che di conseguenza la posizione che l’Unione europea dovrà tenere nel corso dei negoziati sulla Brexit dovrà essere una posizione dura, punitiva nei confronti di un così grossolano errore di valutazione da parte dei cittadini del Regno Unito?
Forse per comprendere meglio il fenomeno e le sue motivazioni si rende necessaria un’analisi più approfondita che guardi all’evoluzione dei rapporti tra Regno Unito e Unione europea.
Non è stata questa la prima volta in cui i cittadini britannici si sono trovati a scegliere rispetto alla propria adesione all’Unione europea. Già nel 1975 si tenne nel Regno Unito un Referendum sulla permanenza nell’Unione europea a seguito della firma del Trattato di adesione del gennaio 1972.
In un contesto generale certamente diverso, le analogie tra il referendum del 1975 e quello del 2016 sono molteplici. In entrambi i casi il voto fu fortemente influenzato dagli effetti di una profonda crisi economica: la crisi petrolifera nel 1975, la crisi finanziaria nel 2016. In entrambi i casi si dibatté sul ruolo da protagonista del Regno Unito nel mondo anche al di fuori dell’Europa, al motto di “Fuori dall’Europa e dentro il Mondo”. In entrambi i casi vi furono spaccature nei principati partiti, sia nel Labour che tra i Tories, tanto che nel 1975, a pochi giorni dal referendum, il Sun titolava: “È scomparso il leader dei Tory. Margaret Thatcher è sparita dalla campagna per il referendum.”.
Eppure il risultato dei due referendum fu molto diverso. Nel 1975 il 63% dei cittadini britannici scelse di restare in Europa. E questa scelta non fu netta solo nella città di Londra, ma la vittoria della scelta europea fu ampia in ogni parte del Regno Unito, in Inghilterra, in Scozia, nel Galles, nell’Irlanda del nord.
Cosa fu, allora, a determinare nel 1975 un risultato così diverso da quello del 2016? Le ragioni sono molteplici, ma certamente c’è un elemento da tenere in considerazione: nel 1975 la campagna pro Unione Europea fu caratterizzata da un forte idealismo. La scelta a favore dell’adesione all’Unione europea non era motivata solo da fattori economici o istituzionali, era una scelta per la pace, per lasciarsi alle spalle definitivamente il ricordo dei conflitti bellici, era un voto per quel grande ideale di unione e collaborazione pacifica che aveva contraddistinto l’idea stessa di Unione europea. Ed è stata questa tensione ideale a mancare nella campagna referendaria del 2016.
Ecco, forse oggi l’Europa ha in parte smarrito il suo sogno ed è proprio questa la causa dei suoi patemi. E allora la Brexit può essere un’occasione di rilancio per la stessa Unione europea. Realizzando un accordo equo per il dopo Brexit che sarebbe certamente nell’interesse di entrambe le parti e che potrebbe lasciare aperta la porta, in futuro, per un nuovo ricongiungimento.
Ma anche, per l’Unione europea, per avviare una profonda riflessione su sé stessa, sul modo più efficace di riavvicinarsi ai propri cittadini. Perché la soluzione ai mali europei non è meno Europa o nessuna Europa. La soluzione è un’Unione che sappia recuperare il sogno originario di uno spazio comune di pace e prosperità per tutti i cittadini, di una cornice comune in cui rafforzare i valori su cui si fondano la cultura europea e la cultura occidentale e tutti quegli alti ideali che ispirarono i padri fondatori.