La dura realtà della crisi permette a ciò che prima sembrava impensabile di farsi strada nel dibattito pubblico. L’idea che oggi si osa pronunciare in Francia è che il Paese affonderebbe in una condizione ancora più grave se non recuperasse la propria sovranità monetaria.
I dubbi francesi
Due sorprendenti dichiarazioni rilasciate da leader francesi all’inizio dell’anno hanno chiarito quest’idea. Il presidente Hollande, preoccupato dall’apprezzamento dell’euro rispetto alle altre grandi monete mondiali, ha invocato un tasso di cambio target. Il ministro delle finanze Pierre Moscovici ha detto poi che l’Europa potrebbe garantire alla Francia un ritardo nel raggiungimento del target vincolante del deficit (3% del Pil). Queste posizioni implicano il desiderio di esercitare un potere monetario sovrano sulle regole e decisioni dell’Unione economica e monetaria. Nel 1989-91 la stessa ragione fu dietro la decisione di Mitterand di imporre l’euro alla Germania – in pratica, di imbrigliare il potere della Bundesbank all’interno di una rete in cui la Francia pensava di poter esercitare una forte influenza. Dato che la moneta unica era la condizione francese per accettare la riunificazione francese, i tedeschi dovettero accettarla. Due decenni dopo, potrebbero aver cambiato idea.
La strada stretta dell’Europa
La crisi dei debiti sovrani ha denudato la realtà dell’unione monetaria, dal momento che i cambi fissi e immutabili fissano e approfondiscono le differenze di competitività tra gli Stati membri dell’eurozona. In un’unione monetaria ci sono solo due modi per ridurre i gap di competitività: trasferimenti dai Paesi più avanzati a quelli più arretrati oppure svalutazioni interne – in altre parole: riduzioni dei salari reali. Non sorprende che la preferenza sia stata accordata al primo modo. Fino alla crisi finanziaria del 2008, i trasferimenti sono stati nella forma di prestiti privati internazionali a banche e governi. A seguito della crisi creditizia, i trasferimenti fiscali hanno sostituito quelli di capitale privato, provocando l’aumento a dismisura dei deficit. E ora che il governo tedesco, in quanto principale prestatore, chiede ragione dei trasferimenti ai Paesi più deboli dell’eurozona, questi vengono condizionati a misure di austerità: cioè, di svalutazione interna.
Hollande contro l’euro forte
I salvataggi ad opera del Meccanismo europeo di stabilità sono l’esempio più chiaro di questo modello, mentre il fiscal compact impegna i Paesi membri a misure fiscali restrittive e riforme strutturali. Maggiore austerità è una condizione vitale perché la Banca centrale europea sia disposta a comprare quantità illimitate di debito a breve dei Paesi in difficoltà. Ad oggi, quest’arma ha avuto l’effetto desiderato, senza che sia stato necessario usarla. I mercati finanziari dell’eurozona si sono stabilizzati, e l’euro si è apprezzato su dollaro e yen. Ma, come indicato dalle recenti dichiarazioni di Hollande, questo apprezzamento è l’ultimo cosa di cui un Paese poco competitivo come la Francia abbia bisogno. Sebbene il governo francese, diversamente da quello spagnolo e italiano, non abbia ancora difficoltà a finanziarsi a bassi tassi di interesse, l’apprezzamento dell’euro in una fase recessiva è come benzina sul fuoco.
Che farà la Germania?
Se non torna la crescita, il già alto debito pubblico francese si gonfierà in modo insostenibile, aumentando il rischio che gli investitori esteri abbandonino i titoli di Stato dell’Esagono. Da questa difficoltà emerge l’idea affascinante che il mercato obbligazionario in fondo preferisca meno austerità fiscale come via per aumentare la crescita economica, con ciò facendo apparire più sostenibile nel lungo termine un alto livello di indebitamento. Non sorprende che Moscovici spinga per una “decisione collettiva europea” che renda più flessibili i termini fiscali del Trattato, per rispettare il quale la Francia dovrebbe fare nuovi massicci tagli di spesa. La Germania accetterà mai questa proposta, o l’implicita richiesta di Hollande che la Bce segua l’esempio giapponese e attui una politica monetaria più espansiva per ridurre il tasso di cambio? A differenza del Giappone, però (e degli Stati Uniti, naturalmente), Parigi è membro di un’unione monetaria, e non può perseguire unilateralmente obbiettivi domestici. Per evitare il disastro, ci sono dunque solo due opzioni: forzare in qualche modo la mano alla Germania o fare da soli.
Pensare l’impensabile
Ci sono due ragioni per cui, ad ora, la seconda opzione (l’abbandono dell’unione monetaria) è stata impensabile. La prima riguarda i rischi economici e finanziari. Abbandonare l’euro provocherebbe una crisi bancaria, fuga dei capitali, inflazioni e forse perfino un default del debito. D’altra parte, la maggiore competitività e l’erosione del valore reale del debito compenserebbe rapidamente questi costi, ricostruendo la fiducia nelle prospettive dell’economia francese. Il successo di questa strategia dipenderebbe dalla credibilità delle politiche del governo: quella monetaria, quella fiscale e soprattutto le radicali e indispensabili riforme dal lato dell’offerta, per le quali a quel punto ci sarebbero margini sufficienti.
Meglio soli che male accompagnati
Lo spettro di una continua stagnazione economica e della disoccupazione in continua crescita (con i lavoratori giovani e anziani più colpiti) dovrebbe rimuovere il secondo ostacolo, di natura geopolitica, all’uscita della Francia dall’eurozona. Per le élites dell’Esagono dalla Seconda guerra mondiale in avanti, l’alleanza con la Germania è stata fondamentale per proiettare potere e influenza francese. Queste ambizioni dovrebbero oggi essere sacrificate in nome del mantenimento della qualità della vita dei cittadini francesi. La Francia non recupererà la sua forza economica senza mettere da parte l’euro. Anche in questo caso, non si vede perché le relazioni con gli altri Paesi europei dovrebbero soffrirne più di tanto. Al contrario, la prosperità sostenibile che ne risulterebbe creerebbe condizioni molto più sane per continuare sulla strada di una “unione sempre più forte” in Europa.
© Project Syndicate 2013
Brigitte Granville, docente di economia internazionale al Queen Mary University di Londra