Skip to main content

Vi spiego cosa cambia dalla Siria al Libano dopo l’annuncio di Trump. Parla il generale Bertolini

trump, usa, Hamas iran

Se il Medio Oriente è da decenni su un piano inclinato, le parole di Donald Trump sull’Iran potrebbero aver innescato un progressivo scivolamento verso un conflitto su larga scala. L’obiettivo degli americani, affiancati dagli alleati israeliani, è tirare fuori Teheran dai giochi regionali, spingendola a compiere errori che potrebbero essere usati come casus belli. Nel frattempo, le elezioni in Libano e la vittoria di Hezbollah fanno suonare un campanello di allarme per i 1.100 militari italiani impegnati nella missione Unifil, sebbene il Paese abbia fin’ora dimostrato di essere un vero e proprio miracolo istituzionale. Parola del generale Marco Bertolini, già comandante del Comando operativo di vertice interforze (Coi), del Comando interforze per le operazioni delle Forze speciali (Cofs) e della Brigata paracadutisti Folgore.

Generale, come hanno notato in molti, nel corso della conferenza stampa, Trump ha lanciato un messaggio diretto al popolo iraniano, sulla falsa riga della narrativa 2002 che anticipò l’intervento militare in Iraq. Crede sia realistico uno scenario di questo tipo?

Non credo. Usare lo stesso modello sarebbe come minimo imprudente: l’Iran non è l’Iraq, è molto più grande e sta giocando un ruolo molto più centrale nelle dinamiche del Medio Oriente, soprattutto in virtù della sua alleanza con la Russia. Dunque, pensare che Trump voglia intimidirlo con messaggi del genere mi sembra un po’ eccessivo. D’altra parte, l’innalzamento dei toni da parte del presidente americano è indicativo di una tensione che potrebbe sfociare in problemi grossi di carattere militare.

Ma l’obiettivo di Trump è un cambiamento di regime?

Questo invece lo credo e lo temo. Non si tratta di una volontà immediata, ma di un modo per alzare la tensione e spingere l’Iran a commettere qualche errore che poi possa essere utilizzato come casus belli. Se è vero che non bisogna legare l’annuncio del presidente Usa alla volontà di un intervento militare nel Paese, non c’è dubbio che Trump veda nel regime di Teheran un nemico da abbattere, in linea con il principale alleato nell’area, Israele. Dunque, credo che nella strategia americana ci sia questo obiettivo.

Che impattò avrà sulla guerra in Siria il ritiro statunitense dall’accordo nucleare e il ripristino delle sanzioni? Crede che i proxy iraniani aumenteranno la propria azione?

L’Iran non cambierà la sua presenza in Siria. Teheran è nel Paese non per una mera fissazione, ma perché sta difendendo, come la Russia, i suoi interessi vitali. Senza un collegamento con la Siria, l’Iran sarebbe murato nel Golfo persico, privo di possibilità di avere accesso al mondo. Per questo, non può cambiare il suo atteggiamento solo perché dagli Stati Uniti arrivano nuove minacce. D’altronde, gli Usa sono sempre stati percepiti come una minaccia da Teheran, che non per questo si è ritirata dalla Siria. Tale atteggiamento non cambierà, anche perché va considerato che il governo iraniano, a mio avviso, ha dato prova di essere un governo pragmatico, capace di affrontare le difficili contingenze internazionali in modo molto razionale. La guerra in Siria ne è un esempio.

In che senso?

Nel conflitto siriano, l’Iran si è fatto coinvolgere ma non troppo. Qualche tempo fa, si parlava di un intervento in Siria che i russi avrebbero condotto da una base iraniana. In realtà, l’Iran non ha mai aperto una linea di credito così impegnativa con Mosca. Teheran è presente in Siria non con unità combattenti, ma con consiglieri militari; una sorta di presenza indiretta. Non credo che tutto questo cambierà. Il governo iraniano proseguirà un approccio abbastanza distaccato, freddo e razionale, e non penso che possa essere facilmente influenzato a reagire emotivamente.

L’annuncio di Trump è una conferma della forte alleanza con Israele. Considera i raid israeliani di questa notte contro Damasco una dimostrazione di appoggio alla posizione americana?

Sì. Non c’è ombra di dubbio che, per Israele, il nemico in Siria siano Assad e i suoi alleati. Tra questi, il nemico più immediato è rappresentato dall’Iran, nei confronti del quale Trump e Netanyahu giocano di squadra. Lo si è visto anche con la conferenza stampa nella quale il presidente israeliano ha teatralmente denunciato l’Iran per aver violato l’accordo nucleare. Le sue parole sono state poi riprese dall’inquilino della Casa Bianca, affermando che gli americani sarebbe in possesso delle stesse. Non c’è dubbio né sulla coincidenza di interessi, né sul coordinamento delle azioni che vengono intraprese. Subito dopo il recente bombardamento in Siria, abbastanza inconcludente, da parte di Stati Uniti, Regno Unito e Francia, gli israeliani ne hanno condotto uno contro la base militare di Hama, che ha prodotto una quarantina di morti. È dunque evidente che Israele utilizzi gli Usa come apripista delle proprie azioni, e viceversa.

Le elezioni della scorsa domenica in Libano sembrano premiare le forze sciite di Hezbollah rispetto a quelle sunnite del primo ministro Harari. In più, il capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, ha recentemente detto che il Paese è stabile, ma ha anche invitato a non abbassare la guardia perché “resta un’area ad alta tensione”. Quale può essere l’impatto della crisi dell’accordo nucleare iraniano sulla stabilità del Paese?

Il Libano è stabile grazie alla presenza delle forze Onu, fra cui anche 1.100 soldati italiani. In realtà, il Paese è stabile anche grazie al pragmatismo che viene dimostrato dalla tre componenti politiche principali: i cristiani del presidente Michel Ahoun; i sunniti di primo ministro Saad Hariri; e gli sciiti del presidente del Parlamento Nabih Berri e di Hassan Nasrallah, capo politico di Hezbollah, un’organizzazione politica, sociale e militare. Il Libano è un miracolo istituzionale. E non si sa come queste componenti, ciascuna delle quali con referenti internazionali diversi (Hariri è sensibile verso i sauditi, mentre Hezbollah verso Assad e l’Iran, e in cristiani nel mezzo), riescano a tenersi al di fuori dello scontro. Basti pensare alla cittadina di Arsal, nella valle della Bekaa; occupata dall’Isis, è stata liberata grazie a un’azione coordinata da parte dell’Esercito libanese ed Hezbollah. Certo, in una situazione del genere, nel momento in cui dovesse cambiare in peggio la situazione per Assad, e quindi per Hezbollah, ci sarebbero conseguenze importanti per il Libano, in particolare a sud, dove la formazione sciita è più radicata. Per ora il Paese resta un’area pacifica e stabile, ma ha fatto bene il capo di Stato maggiore della Difesa, Claudio Graziano, a evidenziare il rischio di uno sbilanciamento nel delicato equilibrio. I risultati di un ritorno all’instabilità sarebbero devastanti; il Paese immette direttamente sul Mediterraneo, e le conseguenze sarebbero drammatiche.

Quanto ha influito il ritorno alla dialettica di scontro tra Usa e Iran nella dichiarata vittoria di Hezbollah?

Per chi conosce il Libano, Hezbollah è un forza sciita ma sopratutto una forza nazionale. Agli occhi dell’intera opinione pubblica libanese, cristiani e sunniti compresi, è quella che ha avuto il merito di aver liberato la valle del Bekaa dall’Isis, che ha fermato l’ultima avanzata di Israele nel 2006. Hezbollah si è dunque conquistata una valenza e una credibilità nazionale che va oltre l’aspetto puramente confessionale, e il fatto che abbia registrato un buon risultato elettorale è la conferma di questo, pur tenendo in considerazione la complessità del sistema di voto libanese, su base confessionale. L’organizzazione può dunque contare su una forza che esiste a prescindere dall’appoggio dell’Iran e sono portato a ritenere che la su vittoria elettorale sia il frutto di un sentire diffuso in Libano più che di ingerenze esterne.

Considerando però i risultati elettorali e le dinamiche Iran-Stati Uniti, ci sono rischi maggiori per i militari della missione Unifil?

La missione Onu è concentrata nel sud del Paese, una zona in cui ci sono stati sempre dei morti, soprattutto in coincidenza delle offensive israeliane. Certo, ora il momento potrebbe essere di particolare tensione, soprattutto per gli spagnoli che operano verso l’altopiano del Golan, l’area decisamente più delicata. Probabilmente, e questo vale per tutti, saranno state date disposizioni di aumentare le misure di sicurezza durante i movimenti, così da non incappare in situazioni difficili da gestire in zone che sono sotto il controllo di Hezbollah o altre forze sciite che, fino ad adesso, non hanno dato problemi.

In definitiva, dopo l’annuncio di Trump su accordo e nuove sanzioni, ci sarà un effetto destabilizzante sulla regione?

Sì. Da quello che sembra, e spero di essere smentito dai fatti, il Medio Oriente è su un piano inclinato, e nessuno pare intenzionato a fare niente per interrompere lo scivolamento verso un conflitto che, inevitabilmente, ci interesserebbe. Per ora, l’unico freno a uno sbocco conflittuale generalizzato è la presenza di americani e russi sul territorio siriano. Continua miracolosamente a funzionare la tipica congiunzione della Guerra fredda per cui le due super potenze evitano lo scontro diretto. Eppure, l’innalzamento di toni dai parte di Netanyahu e Trump rende sempre più difficile il rispetto di questa convenzione. Basta un incidente da poco per creare una crisi fra russi e americani, e a quel punto ci sarebbe il via libera ad azioni incontrollate e non limitate all’area del Medio Oriente. E noi non potremo tirarcene fuori perché la regione è davvero a due passi.


×

Iscriviti alla newsletter