Pubblichiamo un articolo del dossier “Euroscettici d’Europa: non solo Grillo” dell’Ispi
L’Ungheria, diversamente da altri paesi della regione, entrò in Europa il 1° maggio del 2004 senza forti emozioni né grandi contrasti interni. Prova, secondo alcuni osservatori dell’epoca, della raggiunta stabilità politico-sociale, frutto di una transizione dal comunismo alla democrazia e all’economia di mercato avvenuta senza grandi scosse, e quindi della maturità di un’opinione pubblica cosciente delle prospettive che l’adesione alle strutture e ai programmi europei avrebbe offerto al paese. Ma altri avrebbero potuto, e non senza qualche fondatezza, identificare proprio in quella mancanza di passioni contrapposte un primo e inquietante segnale. L’Europa restava in realtà abbastanza lontana dalle preoccupazioni della gente comune, confinata negli ambienti governativi o in quelli degli uomini d’affari. Faticava, in buona sostanza, nel tradursi in qualcosa di vivo, di immediatamente leggibile da parte di una popolazione disabituata da decenni a raffigurarsi un destino a dimensione non più unicamente nazionale o regionale. L’adesione era vissuta dai più come qualcosa di scontato, cui non conveniva sottrarsi visto che essa rappresentava ormai una tendenza generalizzata in Europa centrale, propiziata dai vincitori della guerra fredda e quindi politicamente corretta. Gli stessi partiti ungheresi dell’epoca (l’eterogenea coalizione di socialisti, liberali e centristi al governo e l’opposizione rappresentata dal centro-destra dell’ex premier Orban) si erano, è vero ,manifestati tutti a favore dell’adesione. Ma si erano rivelati poi alquanto latitanti nella necessaria azione pedagogica nei confronti di un’opinione pubblica fondamentalmente nazionalista e ancora frastornata dalla riguadagnata indipendenza, quindi sospettosa del rischio di nuove “sudditanze” nei confronti di entità e istituzioni “straniere”.
Se queste erano le premesse risulterà agevole comprendere come, dopo l’adesione, i governi di centrosinistra succedutisi nel tempo (quello di Medgyessy e i due di Gyurcsany) abbiano attuato una politica nei confronti dell’Europa nominalmente ortodossa, ma sostanzialmente tiepida. Finì col prevalere in essi una visione utilitaristica e di basso profilo dell’Unione che condusse a prediligerne gli aspetti più interessanti per gli immediati interessi nazionali (gli aiuti, la politica agricola) e a trascurarne invece altri giudicati meno redditizi (il rafforzamento delle istituzioni comunitarie, la convergenza delle politiche economiche e fiscali). Si andò così affermando la visione di una “Europa alla carta”, dove ciascuno prende ciò che gli conviene ed evita di impegnarsi in cantieri che gli sono meno congeniali. Un atteggiamento non certo limitato alla sola Ungheria o ai paesi di più recente adesione. Ma che a Budapest venne osservato con particolare continuità e senza sostanziali dissensi. Le stesse politiche di risanamento dei bilanci pubblici caldeggiate dall’Unione – fondamentali per un paese finanziariamente dissestato – vennero in quegli anni blandamente perseguite perché sgradite all’opinione pubblica, tant’è che il deficit (e il corrispondente debito pubblico) continuò a crescere pur in presenza di una congiuntura economica favorevole. L’unico governo che tentò con qualche successo, sul finire della trascorsa legislatura, di invertire la tendenza dei conti pubblici e di applicare una politica maggiormente restrittiva – quello dei “tecnici “ guidato da Gordon Banaj – fu spazzato via dalle elezioni della primavera del 2010 e dalla clamorosa affermazione dei partiti di destra.
Il più “ nuovo “ di questi, perché per la prima volta in Parlamento, è lo Jobbik (in ungherese, letteralmente, “il migliore”). Formazione estremista, a sfondo xenofobo e razzista, seguace di un nazionalismo senza compromessi, rappresenta una frattura nell’atteggiamento complessivo delle forze politiche ungheresi nei confronti dell’Europa. Dichiaratamente anti-europeo, non esita ad addossare all’Unione la responsabilità dei mali di cui a suo dire soffrirebbe l’Ungheria: non solo l’attuale crisi economica, ma anche la perdita di una salda coscienza nazionale, la “minaccia” rappresentata, al suo interno, dalle esigue minoranze (serba, croata, slovena, slovacca e ucraina) storicamente presenti sul territorio e, soprattutto, dagli ebrei e dai rom. Lasciato fuori dalla maggioranza di governo (Fidesz del primo ministro Orban ha ottenuto, unitamente agli alleati cristiano sociali, il 53% dei voti e dispone dei due terzi dei seggi in Parlamento, senza bisogno di ricercare ulteriori appoggi) Jobbik svolge peraltro, forte di un 15% dell’elettorato, una pericolosa funzione di stimolo nei confronti dell’attuale esecutivo e rappresenta un indiscutibile polo di attrazione per tutti coloro che vorrebbero, da parte di quest’ultimo, politiche di stampo nazionalistico e antieuropee ancora più accentuate. Tuttavia, proprio l’impresentabilità delle sue tesi estremistiche e la contiguità con vere e proprie formazioni paramilitari (la “guardia nazionale”) responsabili negli ultimi tempi di azioni violente nei confronti delle minoranze, limitano la sua agibilità politica e quindi il danno potenziale che la sua azione può arrecare all’immagine dell’Ungheria in Europa.
Non così, con tutta evidenza, Fidesz, il partito che detiene la maggioranza qualificata in Parlamento. E che, forte del numero dei suoi deputati, può emendare la Costituzione a suo piacimento (lo ha già fatto più volte nei tre anni trascorsi dalla vittoria elettorale) anche con norme che – limitando ad esempio la libertà di espressione o incidendo sulla separazione dei poteri – si pongono in chiaro contrasto con i principi fondamentali dell’Unione Europea. E che, proprio perché di rango costituzionale, meglio possono resistere alle eventuali censure di cui venissero fatte oggetto. Proprio pochi giorni fa, per mettere a tacere le potenziali critiche della Corte Costituzionale ungherese, l’ennesimo emendamento della Carta fondamentale varato da Orban e pedissequamente approvato dal Parlamento ha tolto alla Corte il potere di pronunciarsi sul merito delle disposizioni sottoposte al suo esame serbandole solo la competenza di sindacare le procedure di produzione normativa: la forma, insomma, ma non più la sostanza. Anche questa volta, come già avvenuto due anni fa, rischia di profilarsi un nuovo scontro con le istituzioni comunitarie che potrebbero, a questo punto, aprire una nuova e più grave procedura di infrazione a carico dell’Ungheria. Come se non bastasse Orban è sembrato sfidare altresì i chiari avvertimenti rivoltigli in passato da Bruxelles in tema d’indipendenza della Banca centrale dall’esecutivo nominando come presidente di quell’istituto un suo compagno di partito ed ex ministro dell’Economia.
Quello che potrebbe stupire è la circostanza che, anche se non poche delle sue iniziative aprono sempre nuovi fronti di contrasto con le istituzioni europee, Orban non si dichiara affatto programmaticamente contrario all’Unione Europea, di cui evita di criticare i principi informatori. Solo con un’evidente forzatura lo si potrebbe includere, del resto, tra gli “euroscettici”. Egli, almeno per il momento non intende promuovere nuovi referendum sull’Europa né minaccia di uscirne. Pur non avendo ancora fissato una data certa per l’ingresso nell’euro, non è un aperto avversario della moneta unica (ma neanche, per la verità, un suo strenuo difensore).
Le posizioni ungheresi in seno all’Unione possono essere critiche su questa o quella decisione ma non vanno mai a colpire l’edificio comunitario in quanto tale. Orban, in definitiva, continua la politica dell’Europa “à la carte” iniziata dai governi di centrosinistra ma la perfeziona, per così dire ,completandola con la propria visione assertivamente nazionalistica. Ciò che dell’Europa va bene per l’Ungheria è accettato. Ciò che contrasta con l’agenda di Orban in politica interna (che, nelle sue stesse parole, consiste semplicemente nel “rivoltare l’Ungheria come un calzino”) è invece accantonato o rimosso, ignorato come se non esistesse. Si potrebbe ben dire, a questo punto, che l’Ungheria di oggi sta scivolando progressivamente in una vera e propria “euroindifferenza”. Non cioè un’antitesi dichiarata del progetto d’integrazione europea, ma la prevalenza costante dell’interesse nazionale (o preteso tale) su quei principi, quelle norme e quelle politiche sovranazionali che questo possono in qualche modo limitare. Senza veri contrasti ideologici ma con una “sovrana” e pragmatica trascuratezza di quelle ragioni che, secondo l’approccio di Orban, la “ragione di Stato” non può intendere. Un modo d’intendere il rapporto tra potere nazionale e ordinamento dell’Unione che, con tutta evidenza, è insidioso per entrambe le parti e che promette, se proseguirà nel tempo, di farci ancora qualche sorpresa.
Paolo Guido Spinelli è strato ambasciatore d’Italia a Budapest.