È difficile fare congetture, in queste ore, su quale sarà la struttura del nuovo governo dell’Italia. È tuttavia da auspicare che chi avrà responsabilità in materia economica abbia dimestichezza con quello che in gergo viene chiamato il “teorema di Mynsky” dal nome dell’economista americano (di origini bielorusse) Hyman Philip Minsky (1919- 1995). Le sue analisi ebbero una notevole popolarità anche in Italia a cavallo tra la fine degli anni ottanta e l’inizio degli anni novanta (del secolo scorso), ma poi vennero quasi dimenticati. Negli Stati Uniti, il Levy Economics Institute del Bard College è il “pensatoio” che più coltiva i suoi studi, che in questi anni, tuttavia, sembrano avere poca popolarità; altrimenti, le manovre monetarie “non convenzionali” per uscire dalla crisi iniziata nel 2008 sarebbe state improntate a maggiore cautela.
La teoria di Mynky sull’instabilità finanziaria congenita al sistema economico internazionale può essere sintetizzata in poche parole. In periodo di espansione dell’economia reale, cresce anche il credito nella sua funzione di motore dell’economia e gli operatori diventano spericolati (nella convinzione che in tempi di vacche grasse occorre approfittarne per ingrassarne ancora di più. Ne consegue l’ipervalutazione di alcune attività economiche (nel 2007-2008 la miccia fu l’edilizia residenziale) e, quindi, la crisi finanziaria. Ne siamo usciti – lo sappiamo- grazie ad una politica monetaria coraggiosa ed innovativa, sia in Europa sia negli Usa (nonché in altre parti del mondo).
Ma siamo di nuovo alle soglie di una nuova crisi, in parte determinata dagli strumenti con cui siamo “usciti” da quella iniziata nel 2008. Il rallentamento dell’economia mondiale di cui ci avvertono Fondo Monetario ed Ocse è un primo segnale. Uno più preoccupante sono i dati sul debito. Il debito mondiale ha raggiunto l’incredibile cifra di 240.000 miliardi di dollari, ovvero il 335% del Pil mondiale. Il debito americano, benché costituisca una parte non eccessiva del totale mondiale (poco più del 9% dell’astronomico cumulo di 217mila miliardi stimato all’inizio di gennaio dall’Institute for International Finance, pari al 325% del Pil mondiale), è pur sempre il primo in assoluto. Ma anche la classifica in rapporto al Pil vede ormai gli Usa piazzati all’ottavo posto, dinnanzi a casi comunemente ritenuti assai più gravi, come quello della Spagna. Se si considera poi il cruciale “debt-to-revenue ratio” (cioè il rapporto con le entrate del governo federale, il denaro con cui il debito andrebbe onorato), si entra in un vero campo minato: il passivo è quasi dieci volte superiore alle entrate.
La stretta monetaria in atto è dolce proprio per impedirne un’esplosione. Gli investimenti, gli effetti più diretti si faranno sentire ovviamente sul comparto obbligazionario, dove nei prossimi mesi assisteremo a un riequilibrio tra la domanda e l’offerta. Già adesso il rating medio sui corporate bonds e BB-+, poco di più a quello attribuito, dalle principali agenzie, alle “obbligazioni spazzature”.
Inoltre, per la prima volta, tutte le principali banche centrali saranno simultaneamente impegnate nella “ripulitura” e riduzione delle dimensioni dei propri bilanci. Dopo l’inondazione di liquidità degli ultimi anni, le economie di mezzo mondo dovranno ora provare a camminare da sole nella nuova fase del ciclo. Nei prossimi mesi la Fed continuerà ad innalzare il livello dei tassi, mentre la quantità dei titoli acquistati dalla Bce sta dimezzando.
È in questo contesto che si troverà ad operare il nuovo esecutivo. Dalla fine degli anni ottanta, anche grazie a Minsky, abbiamo appreso molto in materia di crisi finanziarie. Il servizio studi Bce ha pubblicato in questi giorni un bel volume sulla “rete di sicurezza” ora in atto. Tuttavia, tenendo presente il nostro alto debito pubblico, non sarà facile preparare ed attuare una politica economica ben articolata.