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Pagare i debiti della Pa? Cosa buona e giusta, ma attenti al trionfalismo

Isaiah Frank, mio professore di economia internazionale quando ero in ‘graduate school’ alla Johns Hopkins University, aveva l’abitudine di venire a lezione sempre con un vestito grigio – allora (1967-68) anche i docenti sfoggiavano gli abiti più strani dato che si era negli anni della contestazione – e di salutare la classe alla fine della lezione con un “Arrivederci, Signori Studenti……soprattutto non nutrite mai illusioni”.

Questo ricordo di tanti anni fa mi è venuto in mente leggendo alcuni commenti alla risoluzione unanime con la quale tutte le forze politiche ieri hanno impegnato il governo (Monti) a  sbloccare, con un decreto legge, i fondi essenziali per cominciare a risolvere i problemi connessi ai debiti delle pubbliche amministrazioni nei confronti delle imprese e delle banche. L’unanimità è stata letta come indicazione che su temi essenziali si può trovare una posizione condivisa. Ciò faciliterebbe anche il lavoro dei “saggi” chiamati dal Presidente della Repubblica ad individuare tematiche essenziali in materia, da un lato, d’economia e finanza e, dall’altro, di assetto istituzione individuando punti di convergenza sui quali le forze politiche possano, più facilmente, lavorare.

I debiti della Pa nei confronti delle imprese e delle banche rappresentano un problema che si trascina da anni. Dopo essere stati più volte ammoniti dalle autorità europee e nonostante una forte pressione dal mondo imprenditoriale e del lavoro (numerosissime piccole e medie imprese hanno chiuso i battenti e mandato gli addetti a casa), non si era riusciti a risolverlo non perché mancasse un’unità d’intenti tra le parti politiche ma per una serie di cavilli giuridici e per il timore non solo di non raggiungere l’equilibrio strutturale di bilancio nel 2013 ma anche di superare il tetto del 3% tra disavanzo e Pil.

I cavilli giuridici sono stati superati. Il timore di sforare – di poco e temporaneamente – il vincolo del Fiscal Compact è oggi molto minore di ieri perché la Francia (nonché altri Stati dell’eurozona) sono in situazioni non migliori della nostra. Si tratta, quindi, di un episodio molto specifico e molto puntuale. La convergenza e condivisione delle forze politiche non è indicativa della loro possibilità di avvicinamento su temi più vasti di politica economica.

Prendiamo, ad esempio, quello (cruciale) di come abbattere un tasso di disoccupazione che ha superato il 12% delle forze di lavoro e minaccia di diventare ancora maggiore. Il Pd ha un programma che recepisce in gran misura “il piano del lavoro” della Cgil: regolarizzazione dei precari a servizio della Pa, nuove assunzione a termine in attività socialmente utili (aumentando, quindi, il perimetro della Pa), rilancio dei lavori pubblici, revisione della legge Fornero (per quanto riguarda la flessibilità in uscita), rimodulazione delle aliquote dell’imposta sul redditi e se necessario una patrimoniale straordinaria per finanziare gli oneri aggiuntivi. Il M5S punta invece su una drastica riduzione degli orari di lavoro (sino a portarli a 20 ore la settimana) per aumentare le opportunità d’impiego. Il Pdl propone di rivisitare la Fornero ma per rendere il mercato del lavoro ancora più flessibile. Si tratta di concezioni antitetiche in cui è difficile trovare un percorso di convergenza. Tranne che non si effettui uno ‘ scambio politico ‘ con altri aspetti della politica economica. Scambio, però che può essere effettuato solamente nell’ambito di quella “grande coalizione” che per ora sembra tramontata.


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