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Le inquietudini di Israele di fronte all’imminente uscita di scena di Abu Mazen

Con le croniche condizioni di salute dell’ottuagenario presidente palestinese Abu Mazen, che ha subito tre interventi chirurgici nell’arco di poche settimane, è attualmente ospedalizzato con uno stato febbrile, un’infezione all’orecchio e una possibile polmonite, l’establishment israeliano comincia a porsi degli interrogativi sulla successione in seno all’Autorità Palestinese e sul futuro delle relazioni tra israeliani ed arabi.

Ad esplorare i possibili scenari di un post-Abbas ci ha pensato il quotidiano on line Al Monitor in un lungo articolo uscito questa settimana in cui sono state consultate varie personalità del governo di Gerusalemme e dei suoi apparati di sicurezza. Tutte le figure interpellate manifestano la consapevolezza che “stiamo vivendo i giorni finali della sua leadership”, come ha spiegato un funzionario della Difesa. Altri esponenti dei servizi di sicurezza si sbilanciano e, basandosi su rapporti di intelligence, parlano della concreta possibilità di una definitiva uscita di scena di Abu Mazen in un periodo compreso tra pochi mesi e due anni.

Su quali scenari si apriranno dopo, tuttavia, Israele brancola letteralmente nel buio. Dei cinque ministri sentiti da al Monitor, nessuno si è sbilanciato su nomi di personalità che possano subentrare ad Abu Mazen. Niente a che vedere, insomma, con quanto accaduto nel 2004 alla morte dello storico presidente dell’OLP Yasser Arafat: allora il nome del successore era fuori discussione. Oggi, invece, domina l’incertezza e, necessariamente, la preoccupazione per la possibilità di una guerra per il potere interna alle istituzioni palestinesi e, soprattutto, per l’eventualità che Hamas approfitti del vuoto di potere per prendere il controllo anche della West Bank.

Buona parte della responsabilità di questa situazione viene attribuita allo stesso Abbas, il quale non si è preoccupato minimamente di assicurare un ordinato trasferimento di potere. Ad esempio, l’uomo apparentemente più papabile al momento, il capo delle forze di sicurezza Majid Faraj, non occupa alcuna posizione in seno all’OLP. Altri nomi che circolano, ma sempre circonfusi da un’aura di incertezza, sono quelli di Mahmoud al-Aloul, che nel 2017 è stato il numero 2 di Abbas, dell’attuale primo ministro Rami Hamdallah, e dell’ex premier Salam Fayyad, che aveva costruito una relazione ben oliata con l’amministrazione Obama. Ma anche su questi nomi nessuno se la sente di sbilanciarsi.

Tale situazione preoccupa molto gli apparati di sicurezza israeliani, per due ordini di motivi. Il primo è la possibilità niente affatto remota che Hamas cerchi di scalare il potere. Il secondo è che, venendo meno Abbas, la rodata collaborazione tra israeliani e palestinesi nel campo della sicurezza non sarebbe più garantita.

La leadership militare, in particolare lo Shin Bet, teme di dover rimpiangere questo rapporto cooperativo che ha dimostrato di funzionare negli anni. Personalità come il capo di Stato maggiore Gadi Eizenkot sono consapevoli che l’Autorità Palestinese sotto Abu Mazen ha collaborato lealmente con Israele nel contrasto al terrorismo. Il presidente, soprattutto, ha impedito all’ala militare di Fatah, Tanzim, di cedere alla tentazione della violenza. Si deve senz’altro ad Abu Mazen ad esempio se l’ondata di attacchi all’arma bianca che ha colpito Israele nei due anni passati è rimasta tutto sommato limitata. “Solo le chiare istruzioni di Abbas”, ha spiegato ad Al Monitor un alto funzionario della difesa, “hanno tenuto la maggior parte dei palestinesi al di fuori del circolo della violenza”.

L’alta considerazione in cui Abu Mazen è tenuto dall’establishment militare stride però con l’opinione che del presidente palestinese hanno i principali esponenti politici israeliani, che fanno a gara nel prendere di mira Abbas con attacchi al vetriolo. Un’offensiva retorica costante che vede come indiscusso protagonista il ministro della Difesa Avigdor Lieberman, ma che ha contagiato anche una figura moderata come il ministro dell’energia Yuval Steinitz.

Dalla compagine di governo guidata da Benjamin Netanyahu non sono mancate nemmeno accuse, rivolte ad Abu Mazen, di appoggiare il terrorismo o addirittura di coordinare attacchi terroristici contro Israele. La leadership politica di Israele d’altro canto non ha mai smesso di biasimare Abbas per condotte discutibili come il sostegno finanziario alle famiglie degli autori di attentati contro Israele o lo stipendio mensile assicurato alle persone che sono sottoposte a regime carcerario in Israele. Non vi è dubbio, insomma, che quando arriverà il momento della dipartita di Abbas, saranno ben pochi nel mondo politico israeliano a rimpiangerlo.

Israele attende dunque il momento dell’uscita di scena di Abbas con sentimenti ambivalenti. Vi è una palese contraddizione tra l’atteggiamento degli apparati militari, che considerano preziosa la collaborazione di Abu Mazen, e quello della sfera politica, che ha una pessima considerazione di Abbas. Vi è però una preoccupazione comune a entrambi i mondi, ed è che, alla morte di Abbas, Hamas tenterà un colpo di mano per prendere le redini del potere in tutti i territori palestinesi.

Una soluzione per evitare questo scenario infausto ci sarebbe e porta il nome di Marwan Barghouti. Sebbene stia scontando cinque ergastoli in un carcere israeliano per aver organizzato attacchi terroristici durante la seconda intifada (2000-2005), l’esponente di Fatah gode di notevole popolarità tra i palestinesi, che vedrebbero di buon occhio la sua ascesa alla guida dell’AP.

Se presenta il vantaggio di ostacolare eventuali colpi di mano di Hamas e di mantenere il potere in seno all’OLP, la soluzione Barghouti è tuttavia estremamente improbabile. È pressoché impossibile infatti che l’attuale governo israeliano assuma la decisione di scarcerarlo per permettergli di assumere il potere. E siccome la sinistra israeliana sta da tempo attraversando una fase di crisi, ecco che anche questa carta è senz’altro da escludere per il post-Abbas, almeno nel breve-medio termine.

Si preannunciano dunque tempi difficili per le relazioni tra israeliani e palestinesi, che del resto – come dimostra la reazione dei secondi alla decisione di Donald Trump di riconoscere Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico – sono da tempo alquanto ballerine.


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