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Assad ai microfoni russi per invitare gli Usa a lasciare la Siria

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Il Presidente siriano Bashar al-Assad sceglie un megafono amico, quello del medium del Cremlino Rt, per lanciare il suo messaggio al mondo – la guerra sta per finire e la stiamo vincendo noi – e esortare gli americani a uscire dalla Siria e ad abbandonare al loro destino i curdi dell’Sdf e i territori da loro controllati che – a detta di Assad – dovranno tornare, con le buone o con le cattive, sotto il controllo del governo centrale.

Nella lunga intervista rilasciata a Damasco a Murad Gadziev, Assad si toglie qualche sassolino dalla scarpa. In Siria, afferma, non c’è stata alcuna “guerra civile”, checché ne dica il mondo. “Una guerra civile siriana”, dice Assad, “significa che ci sono linee (di divisione) basate o sull’etnicità o sulla setta o sulla religione. O forse sulle opinioni politiche. In realtà, nelle aree che sono direttamente controllate dal governo, che ora sono la maggioranza della Siria, tu vedi tutta questa diversità”. Ma allora, a cosa si devono questi sette anni di ostilità, gli undici milioni di sfollati e i quasi cinquecentomila morti registrati dall’inizio delle sollevazioni contro il regime? La risposta di Assad è netta: sin dall’inizio, il dramma della Siria è stato scatenato da “mercenari, siriani e stranieri pagati dall’Occidente per rovesciare il governo. Questa è la mera realtà”.

Qualunque cosa sia accaduta, per Assad è comunque in via di conclusione. La “maggioranza” della Siria ora è sotto il controllo del governo, e se si registrano ancora delle ostilità lo si deve agli Stati Uniti e ai loro alleati che hanno prolungato il conflitto. Infatti, prosegue Assad, man mano che il regime aggiungeva vittoria su vittoria sui suoi nemici, gli Usa e i loro partner hanno reagito “appoggiando più terrorismo, portando più terroristi in Siria, o mettendo a repentaglio il processo politico”.

Ma gli sforzi americani e delle altre potenze si sono rivelati vani. Per Assad infatti è “autoevidente” che “ci stiamo avvicinando alla fine del conflitto”. Il Presidente quindi si sbilancia e afferma che, sempre che non ci siano le consuete “interferenze esterne”, ci vorrà “meno di un anno per stabilizzare la situazione in Siria”.

Assad non nasconde che nei dodici mesi che ritiene necessari per porre termine all’incubo siriano scorrerà ancora molto sangue. “La guerra è la peggior scelta”, afferma, “ma qualche volta hai solo questa scelta”. Il riferimento è a “fazioni come al-Qaeda, Isis, al-Nusra e altri gruppi che la pensano allo stesso modo”. Con movimenti come questi, nessun negoziato è possibile: “l’unica opzione per trattare queste fazioni è la forza”.

L’opzione negoziale è aperta invece per le Sdf, la forza composta per la grande maggioranza da curdi che comprende anche combattenti arabi e di altra estrazione etno-confessionale e controlla una porzione importante della Siria nei quadranti nord e nord-est. Il problema, con le Sdf, è che sono appoggiate dagli americani, che si sono avvantaggiati del loro valore militare per sconfiggere lo Stato islamico nella sua roccaforte di Raqqa e continuano a inseguire i rimasugli del gruppo jihadista nella valle dell’Eufrate. In Siria ci sono ancora circa duemila soldati Usa in appoggio alle Sdf, e anche se Donald Trump ha più volte espresso il desiderio di vederli rientrare presto in patria, la loro partenza non sarà immediata.

“Gli Stati Uniti”, afferma Assad, “stanno perdendo le loro carte”. Prima, secondo il Presidente siriano, hanno puntato tutto su al-Nusra; poi, quando hanno scoperto che non era affatto una forza “moderata” ma un ramo di al-Qaida, hanno cambiato cavallo e scelto di appoggiare le Sdf. Le quali ora hanno di fronte un’alternativa: trattare con il regime, restituendogli il territorio attualmente sotto il loro controllo, o combattere.

“Abbiamo intenzione di usare due metodi con le Sdf”, sostiene Assad: “In primis, apriremo la porta al negoziato – perché la maggioranza di loro è composta da siriani. E poiché si presume che amino il loro Paese, non deve piacergli essere marionette di potenze straniere”. Ma in caso di rifiuto, Assad perseguirà senza sconti la seconda opzione: l’uso della forza: “se il negoziato dovesse fallire, l’esercito siriano sarà costretto a liberare le aree occupate dalle Sdf, con gli americani o senza gli americani”.

“Questa è la nostra terra”, afferma il Presidente, e “gli americani dovrebbero partire. In qualche modo, devono andarsene”. Per chiarire il concetto, Assad ricorre ad un parallelo: l’Iraq. Gli americani “sono andati in Iraq senza base legale, e guardate cosa è successo loro. Devono imparare la lezione. L’Iraq non è un’eccezione e la Siria non è un’eccezione. La gente non accetterà più stranieri in questa regione”.

Trump dunque è avvertito: se vuole riportare le truppe a casa lo faccia quanto prima. A proposito del Presidente americano, Assad approfitta dei buoni uffici di Rt per replicare all’insulto – “animale” – che il tycoon gli aveva rivolto dopo l’attacco con armi chimiche a Douma dello scorso aprile. “Questo non è il mio linguaggio”, dice Assad, “quindi io non posso usare un linguaggio simile. Questo è il suo linguaggio. Che lo rappresenta. (…) Penso che ci sia un ben noto principio, che quel che dici è quel che tu sei. Così lui ha voluto rappresentare ciò che è, e questo è normale”.

E a proposito dello strike chimico di Douma, Assad utilizza lo spazio concesso da Rt per continuare a negare ogni addebito. Il Presidente siriano parte dal presupposto che l’incidente è stato provocato dall’Occidente: basti pensare al fatto che questo “presunto strike è arrivato dopo la vittoria delle truppe siriane a Ghouta”, ossia quando i governativi avevano già incassato il successo. “Hanno raccontato una storia, hanno detto una bugia”, è la conclusione di Assad.

Eppure questa presunta bugia è costata ad Assad la fiera reazione occidentale, arrivata sotto la forma di uno strike coordinato di Usa, Francia e Gran Bretagna. Anche su questo Assad ha qualcosa da ridire. Gli Stati Uniti, afferma, hanno “calpestato la legge internazionale”. Qual è infatti “la base legale dell’attacco missilistico di aprile?”. Ma se è per questo, “qual è la base legale dell’alleanza anti-terrorismo? Qual è la base legale del loro attacco in Yemen, o in Afghanistan. Non c’è alcuna base legale”.

L’intervista ad Assad ha avuto ampia risonanza sui media internazionali. E ha provocato l’immediata replica degli Stati Uniti e dell’Sdf. I primi, attraverso il Dipartimento di Stato, fanno sapere che nessuno può incutere loro timore. Gli americani “non vogliono combattere il governo della Siria”, ma se necessario useranno “la forza necessaria e proporzionata per difendere le forze Usa e i nostri partner”.

Per le Sdf, a replicare tramite Reuters è stato il portavoce Kino Gabriel, il quale sostiene che se Assad cercasse una soluzione militare al problema dei territori controllati dalle Sdf, sarebbero inevitabili “ulteriori perdite e distruzione e difficoltà per il popolo siriano”. Le Sdf, aggiunge Gabriel, vogliono “un sistema democratico basato sulla diversità, l’uguaglianza, la libertà e la giustizia” per tutti i gruppi etno-religiosi presenti nel paese. Qualcosa, in poche parole, che somigli più all’America di Trump che alla Siria di Bashar al-Assad.


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